lunedì 22 aprile 2024

Aikido e la disciplina che non serve affatto

Spesso sentiamo dire che ai più giovani servirebbe più disciplina ed imparare il rispetto...

Molti sono i genitori che, sul panorama delle attività sportive disponibili, scelgono per i loro figli le Arti Marziali anche per insegnare loro questi valori... perché comunque sanno che in corsi come questi NON è tollerato tutto, e si insegna ai ragazzi anche a rigare diritto, in qualche modo.

L'Aikido non fa eccezione a tutto ciò: il reishiki (l'etichetta) è fondamentale e quindi lo è altrettanto che tutti i praticanti, giovani e meno giovani, lo imparino e lo mettano in pratica quanto prima....

- si arriva puntuali al Dojo per le lezioni

- si fa un inchino prima di salire sul tatami

- si lasciano gli zoori al bordo del tappeto, con il tallone verso il tatami

- si ha cura del proprio abbigliamento e della propria igiene personale

- si fa il possibile per essere collaborativi con il proprio compagno, contribuendo a creare un'atmosfera di studio serena e proficua...

E quante simili LISTE di "elementi disciplinanti" abbiamo visto nel mondo delle Arti Marziali?!

Solo che tutto ciò può non bastare per niente... e può addirittura diventare controproducente, nell'ottica del sottoporsi ad una DISCIPLINA.

Essere coerciti sotto un cappello di regole NON è darsi una disciplina... ma piuttosto farsi ammaestrare (o "auto-ammaestrarsi"), come si farebbe con una foca, un cane o una scimmia.

Se viene a mancare la scelta personale libera di aderire o meno al sistema delle regole, esse per noi possono fare praticamente solo danni, e provo a motivare questa mia apparentemente strana uscita.

Qualsiasi essere umano nasce, cresce ed ha bisogno del contesto intorno a sé per farlo... poiché viene al mondo in una condizione di completa dipendenza, in un momento di vita caratterizzato da totale anarchia ed egoismo. In questa dinamica, gli altri non esistono: ci siamo solo noi e le nostre esigenze (pappa, cacca, nanna)... pur dipendendo completamente da coloro che nemmeno sospettiamo essere fondamentali per poter esercitare le nostre esigenze primarie ed anarchiche.

Poi, ad un certo punto, un bambino viene più direttamente a contatto con la società e con gli altri suoi simili, imparando ad interagire ed introiettando diversi sistemi di regole (familiari in primis, ma quindi anche ludiche, scolastiche...) e qui qualcosa cambia, ma non è detto che cambi in meglio.

Mentre è palese che tutto ciò sia indispensabile, il bambino inizia a dare retta agli adulti di riferimento che utilizzano il sistema delle regole per 2 differenti (ed opposti) motivi:

- perché sono interessati a far crescere il più possibile in modo sano il giovane ("vatti a lavare i denti dopo aver mangiato", "prima fai i compiti e poi vai a giocare")

- perché sono interessati a rendere quel giovane sempre più manipolabile ed ubbidiente, così da arginarla sua capacità intrinseca di rompere le scatole, o di essere pericoloso per alcuni aspetti della società che non siamo disposti possano venire messi in discussione.

Sempre di regole si tratta: ma nel primo caso sono di supporto all'evoluzione personale, nel secondo caso rischiano di tarparla invece.

Purtroppo il primo luogo dove le regole vengono utilizzate per creare dei piccoli automi è proprio la SCUOLA: si sta zitti, si sta seduti, si parla solo quando la maestra ti da il permesso, se uno si comporta in modo difforme al sistema delle regole, i genitori si sentono dire che "ha un comportamento non ADEGUATO", ma esattamente non adeguato a cosa?

A sbadigliare di noia quando la maestra non è capace di catturare il suo interesse ed attenzione con la lezione che sta tenendo?

Chi decide cosa è adeguato e cosa non lo è?

É sano poter sbadigliare di noia perché la lezione ci sembra inutile e lenta (perché magari abbiamo già capito dove vuole andare a parare o ci pare un nonsenso)?

A volte sembrerebbe di si, ovvero che non sia sempre l'alunno a doversi modificare... l'Insegnante spesso dice che il suo comportamento non risulta rispettoso dei compagni che hanno bisogno di più tempo per comprendere: ma è veramente così, oppure con questa scusa si maschera l'incapacità didattica di chi insegna?

Ed anche nel caso in cui si debba imparare a pazientare, perché non possiamo imparare ad esprimere il nostro disagio emotivo? Perché dobbiamo nasconderlo o fingere che non ci sia?

Ecco che si sta iniziando l'opera di ammaestramento umano, nel quale per ADEGUARSI a ciò che il contesto ci richiede, iniziamo a rinunciare alla nostra autenticità.

Questo non avviene sempre per scopi manipolativi, a volte è necessario UNIFORMARSI anche solo per essere accettati nei gruppi umani dei quali facciamo parte.

Al Dojo arrivano diversi adulti che sono dichiarano apertamente di essere diventati "schiavi" della vita alla quale essi stessi hanno finito per ammaestrarsi da soli, una volta che alle scuole elementari hanno spiegato loro come fare.

E non si diventa solo adulti infelici, ma anche inetti: non siamo più abituati a percepire cosa sia veramente fondamentale per noi, abbiamo spento la fiamma della curiosità verso ciò che non conosciamo ed abbiamo imparato a dire un sacco di "signor si" per poter sopravvivere con meno conflitti possible, secondo la strada di minor resistenza.

Ma un guerriero non accetta di sopravvivere: lui vuole VIVERE... ed è disposto a combattere le battaglie che gli sembrano importanti, anche perché è capace di distinguere quali lo sono e quali no.

Un guerriero, proprio grazie al sistema delle regole, viene sempre più in contatto con se stesso... non diventa un dottore ammaestrato a limitarsi ad applicare unicamente un protocollo sanitario, uno scienziato che studia solo ciò che le lobby pagano, un giornalista che scrive esclusivamente ciò che non dispiace troppo al suo Capo Redattore, un politico che smentisce oggi quello che ha garantito ieri.

Un guerriero NON può fare nulla di tutto ciò, perché se lo facesse potrebbe forse guadagnare plauso e successo in mezzo ai suoi simili, ma perderebbe se stesso... e si schiferebbe di restare al mondo come un mezzo parassita.

Il sistema delle regole di una disciplina è caratterizzato dall'assenza di imposizione e di possibile manipolazione: in poche parole "è una scelta personale".

Una scelta che si può iniziare a fare inconsapevolmente, perché si segue il branco, ma che ad un certo punto richiede una presa di posizione chiara e partecipata: "Tu cosa vuoi fare di te?"

Il Dojo, e quindi i corsi di Aikido, cosa vogliono diventare: gli ennesimi luoghi creatori di "Yes Man", o nei quali si impone l'autorità del Sensei... Un luogo nel quale vige l'anarchia (nel senso più limitativo del temine) o il luogo nei quale si lascia che i praticanti scelgano chi vogliono diventare?

In questo senso, sto molto attento a quale tipo di disciplina regni durante i corsi che tengo: alzare la voce con i bambini, i ragazzi ed ancora di più con gli adulti, trovo che sia sempre una forma di sconfitta... perché quello che si vuole capire, lo si capisce anche se parlo con un tono pacato... e quello che non si ha proprio intenzione di capire, non lo si capisce nemmeno se lo urlo.

Certo, talvolta posso essere percepito anche come "duro ed intransigente" dagli allievi, quando vedo che essi non accettano la sfida della crescita e delegano le loro responsabilità personali: ma si tratta solo di una "sveglia" che do loro, nulla di più. Di meno sarebbe troppo poco, di più sarebbe troppo.

Non posso percorrere il cammino al loro posto: posso solo indicare quello che ad oggi mi pare essere il percorso più sano e ragionevole. E se qualcuno di loro mi venisse a dire che sia annoia?

Per quanto mi spiacerebbe, glielo lascerei dire e mi annoterei se è il solo che me lo rimanda o se è in compagnia: poiché in quest'ultimo caso, magari la responsabilità potrebbe essere più mia che loro!

Ho frequentato in gioventù corsi di Arti Marziali (specie Karate) che sembravano filiali del Cobra Kai:  rimproveri verbali e punizioni fisiche continue... si andava a lezione con la paura di non sbagliare nulla per non fare arrabbiare il Sensei.

Un'ottima scuola di ammaestramento per futuri "servi"... che al tempo imparavano a chinare la testa davanti a quell'autorità, quindi avrebbero passato il resto della vita a chinarla dinnanzi al capo branco, al "maschio alfa" di turno nei vari contesti della quotidianità.

Persone quindi che non riescono ad esprimersi, che sentono di non avere il permesso di farlo, né ribattere criticamente al lavoro, in famiglia, con gli amici, con i figli...

Ricordo che la fine della mia religiosità è coincisa con quando iniziai a rispondere in modo "poco adeguato" dai salesiani dai quali andavo alle medie prima ed alle scuole superiori poi. Era tutta brava gente, e sono certo che desiderassero il bene dei ragazzi, ma cavolo se erano manipolatori!

Almeno, io avvertivo che lo fossero nei miei confronti: avevano compiuto scelte radicali, e quindi avevano l'aspettativa un po' magica che gli alunni facessero perlomeno altrettanto... e tutto è andato bene fino a quando non lo ho fatto presente loro; li mi sono accorto di essere considerato un "divergente", che certe domande e certe obiezioni non potevano essere tollerabili, e che quindi divenivo un pericolo potenziale per la loro community, proprio perché di conformarmi ai desiderata altrui non ci pensavo nemmeno, se questo non coincideva pure con la prospettiva mia.

La disciplina quindi per me può essere severa e pure austera, ma o è scelta o è un fake inutile... specie se è imposta. E se questo vale per un bambino o un ragazzo, figuriamoci per un adulto... Diciamoci pure che se con una disciplina non si impara a divenire più liberi di quanto non lo fossimo senza, allora la disciplina ha miseramente fallito, perché è diventata una gabbia... una rete nella quale si rimane impigliati.

Il problema successivo che si rileva però è che per insegnare al prossimo ad essere liberi, servono persone già a loro volta in possesso (almeno parziale) di questo stesso status: i salesiani della mia giovinezza erano ottimi docenti, ma in media tutt'altro che persone libere. Erano indottrinati, e cercavano quindi di indottrinare a loro volta il prossimo, anche senza accorgersene, pur con un assoluto intento costruttivo (almeno dal loro punto di vista).

Dal mio punto di vista, invece, il solo fatto di aderire a qualsiasi forma di credo non permette a nessuno di essere libero ad un livello significativo, a meno che non si sia consci dei limiti che ciò ingenera e ci richiede: intendiamoci, rispetto molto chi DECIDE di aderirvi... ma, da qualche decennio tendo a dare il giro a chi desidererebbe impormi il suo sistema di credenze, senza nemmeno chiedermi il consenso di farlo.

Nell'Islam - ad esempio - mangiare carne di maiale è considerato “haram”, ossia proibito in quanto costituisce un peccato: se sei mussulmano quindi non sei LIBERO di magiarla; ne devi essere però conscio PRIMA di diventare mussulmano... e soprattuto non sfrangiare i cabassisi al prossimo che invece non è mussulmano e la mangia.

Se nasci in una famiglia mussulmana, fin da piccolo non mangerai la carne di maiale: per te sarà normale questa cosa e non la percepirai più come una disciplina alla quale sottoporsi... ed ecco che nasce l'ammaestramento inconsapevole di se stessi, stando dentro "una gabbia", nella quale non hai scelto di entrare che nemmeno percepisci come tale!

Forse "disciplina" come parola inerente un sistema di regole va implementata con qualcosa che ne faccia intendere la prospettiva che la anima: "questa regola serve a raggiungere quel risultato"... allora è ok.

È un contratto chiaro ed aperto che si stipula, con se stessi e con gli altri: se voglio dimagrire, devo ridurre l'apporto calorico nel mio cibo e/o fare più attività fisica. La "disciplina" della dieta in questo modo è allineata al fine che intendo raggiungere, non c'è alcuna manipolazione, né violenza nel mettere l'alto voltaggio al barattolo della nutella... per impedirci un trasgressivo raid notturno.

Un corso di Aikido non è dissimile: ad esempio frequentare le lezioni con una certa regolarità aiuta a raggiungere tutta una serie di risultati, che sono impensabili per chi viene una volta al mese.

Questo vale per tutti, ma quanti fra quei "tutti" hanno intenzione di raggiungere determinati risultati?

Chi sono io per decidere che ciascuno sia obbligato a farlo nella stessa misura degli altri?

Certo: posso far presente a TUTTI che frequentare con regolarità ha degli indubbi benefici, ma poi non posso imporre che ciò avvenga: o le persone si auto-sottopongono a quella disciplina, oppure non servirebbe a nulla frequentare le lezioni per far piacere a me, o assecondare le mie aspettative.

In questo modo starei creando dei nuovi allievi "ammaestrati" a saltare nel cerchio di fuoco quando glielo ordina il domatore... ma siamo su un tatami, non al circo!

La disciplina che siamo in grado di SCEGLIERE ci aiuta e supporta crescere, qualsiasi altra forma ci INGABBIA e, di fatto, ci allontana dal divenire persone più consapevoli del proprio valore e dei propri limiti.

I corsi di Arti Marziali tenuti dal Sergente Maggiore Hartman non credo siano più molto utili: ciò che sorprende è che in molti luoghi invece si usi ancora così, e poi ci meravigliamo che non c'è gente a sufficienza sui tatami. È ciò che serve alla società?

Le Scuole tradizionali giapponesi sono spesso molto richiedenti, e fanno bene, ma sono riservate ad un numero decrescente di persone: proprio perché non tutti solo DISPOSTI a sottoporsi ad un tale livello di ferrea disciplina.

Pensate a come devono essere ad esempio contenti alcuni discendenti di grandi Maestri per i quali si applica ancora la (folle ?) tradizione di eredità consanguinea del proprio status.

Kisshomaru Ueshiba ha SCELTO di fare Aikido ed è quindi divenuto il secondo Doshu, o si è trovato a DOVERLO fare perché il suo papy glielo chiese?

Moriteru Ueshiba, dopo di lui?

Mitsuteru Ueshiba, che si prepara ad essere il 4º Doshu?

Ed Hiroteru Ueshiba - che adesso avrà circa una decina di anni - spasima di desiderio di divenire il 5º Doshu, o magari vorrebbe fare il panettiere o il benzinaio?

Nessuno di loro sembra avere avuto (o avere ora) più di tanto scelta... quindi mi attendo che sia solo questione di tempo che un "Ueshiba", di cognome, ma di animo differente dal nostro Aiki-nonnetto, si stanchi di questa assurda impossibilità di determinare il proprio destino, e faccia saltare il banco a tutta l'Aikikai.

In fondo, O' Sensei NON ha fatto il mestiere di suo padre, non ha fatto per tutta la vita ciò che gli ha insegnato il suo Maestro Sokaku Takeda... ma ha compiuto delle scelte, si è sottoposto alla disciplina che credeva utile per lui (non di più, non di meno) e si è assunto la completa responsabilità e merito di ciò che è accaduto in seguito a tutto ciò.

Credo che ciascuno di noi debba fare esattamente altrettanto: buttare nel cestino tutto ciò che ci frena, compresa le discipline ammaestranti... ed utilizzare gli strumenti che ci servono - per quanto acuminati, pericolosi e richiedenti - per giungere dove crediamo sia sano dirigerci.

Marco Rubatto



 

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