lunedì 13 settembre 2021

Aikido, perché a piedi nudi sul tatami?

Abbiamo detto molto dell'Aikido in questi anni, ma non ci siamo mai fermati ad esaminare un aspetto che può apparire tanto scontato, quanto può rivelarsi profondo ed importante...

Perché la pratica si fa scalzi? Ciò può avere un valore aggiunto?

Si pratica scalzi nel Judo, nel Karate, nel Kendo... ed anche in Aikido: la tradizione del Budō giapponese quindi prevede questo, ma non è così per tutte le arti marziali.

Tai Ji Quan e Kung Fu cinese si praticano con un'apposita calzatura comoda, ma adatta a qualsiasi terreno. Il Krav Maga talvolta fa uso di calzature dedicate alla pratica simili a scarpe sportive leggere...

Come mai allora il Giappone si è orientato in modo differente?

Esiste un plus valore nel praticare scalzi?

Sono domande complesse, alle quali non abbiamo alcuna aspettativa di rispondere in modo esaustivo, tuttavia è interessante tracciare un minimo di storia di determinate usanze.

Quando le arti marziali erano (o sono) la modalità più comune di difendere la propria vita, avevano (o hanno) l'esigenza di essere praticabili in qualsiasi contesto ci si ritrovi.

Bisognava essere sempre pronti, e siccome fuori da casa nostra ci andiamo muniti di calzature (pure in casa ne facciamo sovente uso) è naturale che diversi sistemi marziali abbiamo incluso le calzature nell'abbigliamento consueto della pratica.

Il terreno su cui ci si trova può essere di qualsiasi tipologia (un tempo aveva carattere più naturale, oggi più manipolato dall'uomo), ed è quindi su qualsiasi tipo di suolo che è il caso di sapersi difendere.

In Giappone sono sempre valse regole simili, sino a quando - verso gli inizi del '900 - il Bujutsu [武術] divenne lentamente Budō [武道]: la differenza non è poca...

Con il primo termine si intendevano (ed intendono tutt'ora) tutte quelle discipline che con le loro tecniche miravano (e mirano) a scopi militari di tipo difensivo e/o offensivo... mentre il secondo termine si riferisce alle stesse discipline rielaborate in base a sistemi educativi, pedagogici, filosofici, ed etici più moderni a favore dell'individuo che le pratica.

Se dovessimo fare una differenziazione estrema, esagerata ma chiara, il Bujutsu serve a salvarsi la pelle in una battaglia, mentre il Budō serve a conoscere se stessi mentre si combatte.

Questo ha portato gli allenamenti ad essere tenuti in sale preparate appositamente per il loro svolgimento, solitamente su un tatami di paglia di riso o su un palchetto di legno. L'esigenza di allenarsi o combattere in qualsiasi contesto ha lasciato il posto all'allenamento in luoghi dedicati, con una superficie ideale (scevra dalle irregolarità che si possono incontrare sul sentiero di un bosco, ad esempio), che poteva (e può) consentire di stare scalzi.

L'Aikido ci è stato donato da una persona nata nel 1883, ovvero proprio a cavallo di questa trasformazione storica delle arti tradizionali giapponesi (per la quale come data indicativa prendiamo il 1868, ovvero la restaurazione Meiji): per questo sin da subito si iniziò a praticare scalzi, anche se gli stili più tradizionali sanno bene che ancora oggi si preferisce praticare armi all'aperto, ovviamente dotati di calzature che lo rendano possibile.

La tradizione giapponese moderna si basa (o basava, a seconda dei contesti attuali) comunque su superfici interne a sale di allenamento costruite con materiali NATURALI, listelli di legno o materassine di paglia di riso intrecciata appoggiate su listelli di legno. La connessione con il suolo sottostante l'edificio veniva garantito da una sorta di micro-palafitte (un tempo di legno, ora di cemento) sulle quali la struttura superiore veniva (e viene ancora) letteralmente appoggiata.

Questo per via dei numerosi terremoti, che avrebbero potuto distruggere qualsiasi connessione fissa con il suolo da parte di un edificio: appoggiandolo invece solo, era (e talvolta è ancora) garantita una flessibilità tale da non compromettere l'integrità strutturale di templi, case o Dojo.

Quando le discipline divengono un DO, ossia una strada, per conoscere meglio se stessi sotto stress, diviene chiaro che il problema dei problemi risulta dalla disconnessione e dis-integrazione delle parti che ci costituiscono.

Per questa ragione, mentre i JUTSU basano tutto sulla tecnica dei waza (le tecniche), i DO privilegiano lo studio dei principi attraverso i waza, più che in waza in se per sé: l'obbiettivo è conoscersi dal di dentro ed individuare quali sono gli elementi conflittuali presenti all'interno di ogni praticante... che non solo remano contro in caso di conflitto esterno, ma possono impedirci di vivere serenamente anche i momenti in assenza di conflitto.

Ci si prefigge quindi una prospettiva opposta ai JUTSU, che servono a vincere sugli altri: i DO risultano utili a vincere su noi stessi... perciò se i primi mirano all'analisi e quindi alla divisione di ogni minimo aspetto per comprenderlo più a fondo... i secondi mirano alla sintesi ed alla integrazione, per ottenere nuovamente il "monos", ovvero l'unità (parola che è anche la radice di "monaco").

Nei DO diventa importante unire se stessi alla dimensione sia prettamente materiale (terra), che a quella spirituale (cielo), per approdare alla costituzione di un "ten-chi-jin", ovvero di una "persona del cielo e della terra (fra loro integrati)".

Da questa prospettiva emerge chiaramente la necessità di stare più possibile a contatto diretto - e non mediato - con la madre terra, usanza che fra l'altro era presente anche in altre culture antiche della terra (es. nativi americani).

Il contatto diretto con la terra veniva (e viene) vissuto come la possibilità di fare direttamente da ponte energetico fra i reami del visibile e dell'invisibile, cielo e terra... tipo un albero che affonda le sue radici nel terreno, ma che hai i rami che svettano nell'aria.

L'essere umano viene paragonato alla scarica elettrica fra le due piastre di un condensatore naturale, di polarità opposta: il + è il cielo, il - è la terra (la nostra lingua lo sottolinea persino nelle declinazioni maschile e femminile dei sostantivi).

Lo stare saldi "con i piedi per terra" - simbolicamente parlando - è considerata essere una delle condizioni necessarie per prendere consapevolezza della propria natura più autentica e delle reali possibilità a nostra disposizione; al contrario, avere troppo la "testa fra le nuvole" - anche nella cultura popolare - sa di quell'atteggiamento sognatore, tanto geniale quanto talvolta disconnesso dalla propria realtà (spesso in fuga da essa) e quindi incapace di concretizzare i propri sogni.

NOI STIAMO COI PIEDI PER TERRA, allora... ed iniziamo anche forse a comprenderne il valore.

Ci sono stati diverse persone, sia giovani che adulti, che hanno provato imbarazzo o ritrosia quando abbiamo chiesto loro di salire sul tatami scalzi... come mai?

Famosa è nel nostro Dojo la storia di un certo Giampaolo (lo chiameremo con questo nome di fantasia) che aveva convinto ai genitori a vivere con le calze, sempre... anche durante la notte. Quando venne al Dojo iniziò una lotta senza precedenti fra lui ed il Sensei per il permesso di tenere le calze a lezione, mentre ovviamente gli altri bambini avevano da subito imparato a farne senza.

Durò un mesto circa: poi il pazzerello Giampaolo scoprì quanto lo stare a piedi nudi lo facesse sentire bene (nonostante il fatto che al tempo non praticavamo in una struttura poi così tanto "giapponese"). Chi lo ha conosciuto non poteva non avere notato quanto questo ragazzo fosse mentalmente scisso dal suo stesso corpo. Mettere barriere (anche fisiche, come le calze) fra l'alto ed il basso forse per questo era diventata una necessità così impellente.

E così è tutt'ora per tutti coloro che, dopo una giornata di lavoro o prima di essa, si tolgono le calzature e rinnovano la percezione di sé direttamente supportata dal tatami, senza alcuna intermediazione artificiale o divisiva.

Stare a piedi nudi è svelante ed uno strumento molto potente: da "bravi" occidentali noi pensiamo di essere nella nostra testa, dove sentiamo la vocina dei nostri pensieri... ma le discipline orientali insegnano proprio ad unire ed integrare mente e corpo, non a scinderle.

Per questa ragione, dobbiamo fare i conti con un nuovo paradigma quando ci viene chiesto per la prima volta di mostrare in pubblico una parte di noi - i piedi appunto - che siamo abituati a rendere pubblici solo in estate su una spiaggia.

I piedi, solitamente costretti in calzature non sempre comode durante le 8 ore scolastiche o lavorative, sono maleodoranti perché sudano e non "respirano" nel luogo dove li teniamo per molte ore segregati ogni giorno: essi però diventano un organo sensoriale percettivo molto potente su un tatami, riappropriandosi della cinestesia libera che meritano... diventando addirittura un'arma in certe spazzate, ma un arma "sensitiva e sensibile"... poiché noi siamo anche nei nostri piedi, o almeno siamo li esattamente come siamo nella nostra testa.

Per tutte queste ragioni crediamo che sia un gran bene ce la nostra disciplina continui ad essere svolta (prevalentemente) a piedi nudi.

Chi ha studiato un minimo di riflessologia plantare e/o di medicina tradizionale cinese, sa quanti punti e linee energetiche si affaccino sulla pianta dei piedi, e quando alcune posizioni (come il seiza o il kiza) siano in gradi di stimolare meridiani specifici, propria a partire dalla dita e dalla pianta dei piedi.

Una sorta di auto-massaggio shiatsu naturale e gratuito al quale ciascuno può sottoporsi anche solo andando a lezione sul tatami: un beneficio aggiunto, spesso inconsapevole, ma sempre molto gradito da chi ne fa esperienza diretta.

E tu... non ti viene voglia di buttare via le scarpe e raggiungerci sul tatami?!




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