Più un'azione è rapida, più c'è probabilità che essa sorprenda il partner, agisca in modo esplosivo e raggiunga il risultato che si era prefisso!
Noi iniziamo a studiare, sin da subito, il katame waza: una tecnica come sankyo omote è lunghissima!
Prima fai scendere uke, poi lo fai risalire, poi discendere: sembra di essere amanti delle montagne russe!
Ma allora, siamo così stolti da non essercene mai accorti?
Se ci facciamo caso, le tecniche di base risultano particolarmente lunghe e laboriose, mentre quelle più avanzate sono più dirette "semplici" (non facili: "essenziali", intendiamo!)
Ci sarà un motivo?
Oltre tutto c'è anche la curiosa tendenza ad UNIRE fra loro alcune tecniche, facendo si che la fine di una corrisponda all'inizio di quella successiva... e questo avviene sia con il buki waza, sia con il tai jutsu...
Ma così non rischiamo una volta ancora più di fallire marzialmente?
Questa pratica si chiama "renraku waza", cioè "concatenazione di tecniche"... ed è invece considerata piuttosto avanzata ed importante ad un certo livello di studio della nostra disciplina.
Pubblichiamo quest'oggi un nostro lavoro fatto al Dojo per rendere l'idea, perché sul Web non abbiamo trovato nulla da condividere sull'argomento.
Abbiamo preso 4 esercizi di ken, 4 di jo e 4 di tai jutsu e li abbiamo concatenati come esempio.
Sicuramente, da un punto di vista prettamente marziale, più si dilunga e concatena l'azione di tori ed uke - cioè più diventa complessa - più si ha la possibilità di perdere il controllo di ciò che si sta facendo... e il nostro compagno avrà più possibilità di "girare il coltello" con il manico a suo favore.
Ma allora perché sottoporci a questi allenamenti?
Secondo il nostro parere e le risposte che abbiamo ricevuto da numerosi Maestri ai quali abbiamo chiesto un opinione in merito, la ragione di "renraku waza" potrebbe comunque essere seria e profonda... benché non direttamente collegabile ad un'attività improntata sull'efficacia marziale.
Noi abbiamo ridefinito renraku waza "la via di zanshin e musubi", ossia il percorso che permette di sviluppare uno spirito pronto ed una capacità di "legarsi" al partner ed all'azione in corso.
Per comprendere questa possibile via di studio dobbiamo innanzi tutto chiederci qual è la principale attitudine dell'Aikido.
Secondo noi, essa consiste nel praticare alcuni movimenti corporei in compagnia di un altro individuo (o individui) per approfondire la propria conoscenza sulle loro qualità ed il nostro sentire durante la loro azione.
E' possibile muoversi in modo solo meccanico, o con coscienza più o meno alta di ciò che si fa... ed in quest'ultimo caso si spalanca un'intero universo di fronte al praticante, nel quale le direzioni di studio si moltiplicano, talvolta addentrandosi in aree parecchio sottili da percepire...
Crediamo che in Aikido sia più utile trovare i propri errori che cercare di coprirli... ed in questo senso trova già una parziale giustificazione la lungaggine di alcune tecniche di base rispetto a quelle più dinamiche ed avanzate... o rispetto ad un calcio o un pugno di qualche altro stile marziale.
Se l'azione è lunga, abbiamo più tempo per sbagliare e quindi paradossalmente abbiamo più tempo per accorgerci dei nostri errori, notarli, studiarli e magari porvi rimedio in una ripetizione successiva della tecnica.
La velocità "contrae" e movimenti, ma anche il tempo con il quale possiamo percepire le lacune che mostriamo nella loro esecuzione.
In merito a ciò, rimandiamo il lettore ad un Post scritto qualche settimana fa e leggibile al seguente link:
"non vogliamo uscire dalla fortificazione solo per colpire, per poi rinchiuderci nuovamente al suo interno al sicuro", poiché l'azione marziale vera e propria avviene proprio nel frangente in cui c'è effettivo contatto - rapporto - con il nostro partner/avversario.
Ma allora è bene che questo "rapporto" duri il più possibile se vuole essere il nostro oggetto di studio: secondo questa tesi, quindi, andremmo a "rischiare" marzialmente proprio perché siamo interessati a conoscere noi stessi in quei momenti di stress e conflittualità, "troppo fugaci" in un pugno diretto o in una tecnica fulminea.
A questo punto, allora... se riuscissimo a concatenare più sequenze fra loro (sia con le armi, sia a mani nude), non faremmo altro che aumentare ulteriormente la possibilità di studio della nostra attenzione (che deve mantenersi per 40/50 secondi, anziché per 4 o 5) e della nostra capacità di "avvolgere" il partner con una serie di sbilanciamenti successivi raccordati fra loro.
Se una tecnica fosse vista come la costruzione di una sorta di "gabbia" di sbilanciamenti, dalla quale il nostro compagno può uscire solo se lasciamo troppo spazio fra due sbarre...
... allora la concatenazione di tecniche è la capacità di ampliare questa gabbia, ma continuando a porre attenzione sulla possibilità che egli ha di sottrarsi dal rapporto, proprio a causa della sua aumentata possibilità di spazio e tempo per muoversi!
Allora sarebbe nostro interesse tenere "il centro" del partner più a lungo possibile ed imparare a riconoscere quegli istanti in cui "stiamo per perderlo", proprio per evitare che ciò accada.
Sicuramente - come dicevamo - più la sequenza è macchinosa e complessa, meno sarà gestibile e di efficace utilizzo, ma in questo caso la nostra formazione potrebbe passare per utilità molto differenti dal pensiero ossessivo che "possa funzionare" ciò che facciamo.
D'altronde non sarebbe la prima volta che ci imbattiamo in alcuni paradossi nella pratica dell'Aikido, così come il Fondatore ha più volte lasciato nei suoi scritti.
Ampliamo il "tempo di contatto", la sua complessità... ma non per masochismo, quanto per poter mettere la lente di ingrandimento su aspetti più sottili ma altrettanto importanti e decisivi in caso di applicazione reale di un'azione marziale.
Voi cosa ne pensate?
Ci piacerebbe avere un rimando delle vostre esperienze in merito, poiché quella che vi abbiamo appena esposto è solo "farina del nostro sacco"... e quindi un confronto non potrebbe che aiutarci a considerare nuove prospettive in merito.
Un grazie in anticipo a tutti i lettori!
5 commenti:
le tecniche "lunghe" secondo me hanno il compito di insegnarci a far emergere quella sensibilità necessaria per rendere istintiva la percezione dell'istante in cui "l'avversario" è totalmente sbilanciato e in balia della nostra azione, inoltre sono daccordo che siano utili per scovare le nostre pecche e imperfezioni
Il lavoro sul concatenamento è tipico di tutte le discipline anche di quelle di strike. Non è affatto improbabile, ma parte integrante di qualsiasi sistema di combattimento. Il colpo definitivo o la tecnica definitiva possono esistere ed esser ricercati, ma non rappresentano la "normalità", quindi tutte le discipline inseriscono lavori di questo genere. L'importante è non far diventare un lavoro sulla percezione, continuità, controllo etc, in uno sulla memorizzazione di più tecniche. In poche parole il renraku waza NON è un ulteriore kata solo un po' più lungo, ma un lavoro sulla libertà.
Il lavoro di concatenamento è parte integrante nell'allenamento di ogni disciplina anche di quelle di strike. La ricerca della tecnica definitiva seppur idealmente presente, non rappresenta la "normalità". Quindi tutte le discipline allenano il renraku. L'importante è NON praticare il renraku come un kata un po' più lungo, ma come una continua ricerca di controllo e percezione dell'altro e delle variabili che s'innescano/presentano. Naturalmente per praticare questo allenamento in modo proficuo c'è bisogno della disponibilità di ambo le parti nel non voler stoppare la situazione irrigidendosi, ma sempre in piena libertà. In sostanza se non si limita ad un solo lavoro di memorizzazione, è tutt'altro che un improbabile allenamento, e può tranquillamente essere proposto in tutti i gradi d'intensità.
Caro Marco,
trovo l'articolo tra i più fecondi che abbia letto, per "ispirazione" e svolgimento a più dimensioni... A mio giudizio il problema è essenzialmente questo: espandere la coscienza rispetto a temi quali la distruttività, la paura, la relazione. Lo strike indica bene la volontà di disfarci presto del "problema", di esorcizzarlo. Senza sapere quanto del problema è dentro di noi, quanto realisticamente addebitabile al mondo esterno e, last but not least, la misteriosa, simbolica, sincronistica relazione tra interno ed esterno.
Il soffermarci, il sostare (so stare)provocato dal renraku o dalla "tecnica lunga" è uno strumento formidabile per espandere la coscienza, al fine di trasformarci, di non ripetere inconsciamente sempre gli stessi comportamenti.
La griglia marziale-emotiva può essere un mezzo di trasformazione della personalità al pari o persino meglio di altre vie meramente spirituali. I gesti marziali presi in se, sono cose d'antiquariato se non ne riconosciamo il fine; paradossalmente anche al tempo della armi da taglio pienamente vigenti (a cavallo tra il 1600 e il 1700)un certo samurai di nome Issai Chozanshi era pienamente sostenitore di quest'approccio psicologico, recidendo ogni diatriba tra stili marziali diversi. A questo proposito potrebbe essere illuminante la mia recensione pubblicata su AIN di "La diceria del demone ed altri racconti" a cui pienamente rimando.
Tutt'altro che improbabile quindi il renraku come strumento di crescita, purché non si cada nel manierismo.
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