martedì 23 novembre 2010
Ancora su UKE
La scorsa settimana abbiamo pubblicato un Post che tentava di mettere in luce il complesso ruolo di uke, che ne delineava meglio il profilo e che stimolasse qualche riflessione in merito alle sue più comuni "deformazioni professionali".
"Gli errori di UKE" ha avuto uno straordinario picco di interesse e critica fra i nostri fedeli lettori.
Innanzitutto il nostro sentito grazie per questo.
Evidentemente l'argomento è risultato di notevole interesse per molti di voi, come peraltro è logico accada per qualsiasi Aikidoka serio e maturo, quindi abbiamo deciso di tornarci sopra, anche per dare spazio ai numerosi scambi che, privatamente, alcuni di voi hanno poi avuto con la nostra Redazione.
Innanzi tutto vi segnaliamo i primi due articoli giuntici in seguito al nostro scorso Post, che abbiamo linkato nei commenti relativi ad esso, la scorsa settimana. Vi consigliamo vivamente di leggerli ed ampliare così ancora ulteriormente il panorama del nostro discorso.
Sicuramente il ruolo di uke, la sua funzione, la cura della sua crescita e del suo comportamento è considerata in modo notevolmente diverso all'interno delle varie scuole di Aikido: di qui forse possono nascere alcune delle principali differenze di interpretazione sulle caratteristiche che egli dovrebbe incarnare.
Nelle scuole dove viene maggiormente enfatizzato un lavoro basico di tipo solido e maggiormente statico (l'Iwama Ryu, ad esempio), uke potrebbe forse essere paragonato ad un "fil di ferro"... una sorta di rispettabile manichino...
...avete mai visto le stupende sculture che si possono fare solo piegando sapientemente un fil di ferro con le pinze?
In questo caso uke non è chiamato ad "interpretare" il movimento che tori induce su di lui, ma solo ad eseguirlo, in modo da poter fare da specchio a quest'ultimo con la posizione assunta: "se mi fai questo, mi metti così... se mi fai quest'altro, mi spostai/piegherai/girerai in quest'altro modo".
Così facendo, chi esegue una tecnica ha a disposizione un feedback molto preciso sulle conseguenze del suo movimento e inizia a concatenare le cause generate dai suoi spostamenti alle reazioni che si generano sul proprio partner: se si vogliono modificare le reazioni, sarà necessario a ritroso, modificare le cause, cioè le proprie posture e movimenti.
Questo genere di uke non somiglia molto ad un avversario reale, perché nessuno di essi aspetterebbe immobile che gli accada qualcosa senza reagire... Egli adotta un modello di comportamento volutamente semplificato rispetto a quanto accade nella normalità, così da fare esercitare il proprio partner con il "metodo a specchio" che abbiamo sopra illustrato.
Altre scuole invece, quelle generalmente più dinamiche, che conferiscono maggiore importanza al senso del movimento connesso e congiunto, "addestrano" i loro uke ad essere estremamente reattivi, collaborativi con i partner solo nella misura di permettere ad essi di compiere un movimento molto specifico e selettivo, ed impedendone molti altri, considerati al momento inadatti, errati e/o fuori luogo.
In questi casi, chi assiste all'interazione fra nage e uke dall'esterno, ha più la sensazione di trovarsi davanti ad un film che ha una precisa trama. L'attaccante compie la sua azione inducendo nage ad uno specifico comportamento, che a sua volta influenza quello del partner.... che può modificare la sua intenzione iniziale, ad esempio, cambiando attacco... che influenza però il comportamento di chi esegue la tecnica... e così via a rimbalzo fra i due, fino a quando l'azione non può dirsi conclusa e la tecnica costruita ed eseguita.
C'è ora più scambio all'interno della coppia, interazione e connessione.
Ogni tipologia però presenta ovvie patologie, generate dall'estremizzazione delle sue caratteristiche: non sarà facile pensare che l'uke ideale è colui che si pone in equilibrio fra questi due estremi.
Ci saranno movimenti indotti da nage, dei quali uke potrà solo essere specchio, ed iniziative a suo carico volte a stimolare ed amplificare il doveroso controllo che nage deve mantenere su di lui durante tutta l'azione.
Con l'occasione di riflettere nuovamente insieme su questo importante argomento, approfittiamo per riportare nel seguito un articolo inviato in Redazione la scorsa settimana a cura di Nino Dellisanti Sensei.
Si tratta di un testo proveniente da una rivista francese di una ventina di anni fa e gentilmente tradotto dallo stesso Dellisanti Sensei, che ringraziamo per l'interessante contributo.
Di seguito ve lo proponiamo:
"L'uke è colui che attacca, e che "subisce" la tecnica, "subisce" la risposta del proprio partner.
Il suo attacco è previsto in anticipo, così come la tecnica con la quale il partner reagirà. Se la tecnica è eseguita correttamente, l'uke sarà o proiettato o immobilizzato a terra.
Questo non vuole dire che si lascia pazientemente manipolare attendendo il suo turno per lavorare.
Il ruolo di uke è molto difficile da sostenere.
Senza parlare dei problemi di orgoglio che hanno spesso i principianti, che possono sentirsi umiliati nel recitare (possiamo dire) il ruolo del cattivo, abbiamo all'inizio molte difficoltà ad attaccare con sincerità, e a rimanere "viventi".
Il principiante è generalmente e un burattino nelle mani del suo partner, una bambola sia di legno che di seta. La bambola di seta si lascia mollemente tirare girare agli estremi delle braccia, non controlla niente di quello che gli succede si piega alla prima spinta.
Non è successo nulla fra i partner perché non c'è stato nessun incontro, nessuno scambio.
Quando non c'è nessuna coesione, alcuna fermezza nel corpo dell'uke, non ce ne può essere fra i due partners.
Senza attacco, la reazione non ha alcuna ragione di esistere e la tecnica non è che una formalità. Un buon attacco mira veramente all'avversario.
Bisogna ben inteso essere capaci di fermarlo se per una ragione qualsiasi costui non reagisce come deve, ma tori non può fare nulla se non c'è di fronte a lui una dinamica, una forza, una direzione vera.
E' già uno studio molto interessante del proprio senso aggressivo vedere il modo con cui noi attacchiamo.
La paura di far male è ugualmente inutile che l'aggressività, e l'Aikido può sbarazzarci di questi due problemi.
Prendendo un po' di confidenza la bambola di seta incomincia ben presto a non essere più tale, ma il burattino di legno ha molte più difficoltà a liberarsi della rigidità.
E' la vecchia storia della quercia e del bambù con un problema supplementare.
Quando si è rigidi nel proprio corpo lo si è anche nello spirito. C'è un genere di praticanti che non possono o non vogliono accompagnare il movimento.
Affinché sia "creata" la tecnica, bisogna che l'uke accetti di seguire. Se rifiuta, il suo partner è in posizione di spaccargli il polso o la spalla.
Può farlo se vuole (o perlomeno forzare un po' per mostrare il senso da seguire) ma l'Aikido è rotto fra di loro.
L'accettazione è la migliore protezione che esiste, è la caduta, ukemi, il solo mezzo di uscire da alcune situazioni.
L'Aikido è per definizione l'armonia, la sincronizzazione.
Il rifiuto è non soltanto sterile, ma molto pericoloso.
Quando la velocità aumenta anche di poco, il solo modo di preservarsi è di andare veloce così come il movimento che trascina, incollarsi nel senso che da tori.
Se il Ki continua a circolare nelle membra, se la concentrazione è buona, non c'è choc quando il movimento ritorna contro di voi. Se al contrario la corrente, la spirale del movimento è spezzata per un istante, la tecnica è morta.
Naturalmente è facile bloccare tori quando si sa esattamente cosa sta succedendo.
Un buon tori lo sente e lo comprende immediatamente, e può scegliere sia di lasciare che l'uke subisca le conseguenze (dolorose) del suo rifiuto, sia di cambiare strada eseguendo una nuova tecnica. In tutti i casi il tori è il centro, il perno del movimento.
Solo uke soffre del suo rifiuto. L'attacco è una sorta di meteora che si getta contro un pianeta. All'ultimo momento è attirato dalla forza di gravità di questo pianeta. Portato fuori dalla sua orbita si mette a girare attorno ad esso e, per un istante, i due sono in perfetto equilibrio.
Ma la meteora è comunque un corpo estraneo, e arriva il momento in cui non può più seguire, allora è rigettata nello spazio esterno dalla forza stessa che l'ha attirata.
In Aikido si arriva all'applicazione marziale senza cercarla specificatamente, senza riflettere su una situazione stretta di violenza all'angolo della strada. Si può trovare nell'Aikido un senso più largo, valido per degli aspetti molto vari della nostra vita.
Nel momento adatto l'applicazione marziale è lì se noi ne abbiamo bisogno.
Nel frattempo possiamo cercare la sensazione viscerale che ha dato alla tecnica la sua forma, il suo ritmo, la sua aspirazione e la sua espansione.
Non è sufficiente per l'uke evitare semplicemente gli estremi di cui abbiamo parlato; abbandonarsi o bloccarsi.
Da quando comincia ad avere il senso dell'accettazione, bisogna che provi a graduarlo.
Bisogna arrivare ad accettare solo quello che è giusto. Non domandare troppo, e neppure fare dei complimenti...
Quando il tori non è riuscito a creare disequilibrio, l'uke può anche restare in piedi. Se il tori lascia un apertura, l'uke può rientrare, e creare lui stesso la tecnica.
Non si tratta di entrare in un senso di competizione, di vedere chi è il più forte o il più abile.
La vigilanza è indispensabile ed è bene imparare che siamo stati per un istante molto aperti ad una risposta. Ma peraltro non serve a niente fare ostruzione quando un partner meno potente cerca la buona direzione.
E' sufficiente indicargli il controllo indispensabile che gli darà il tempo di cercare. C'è sempre una leva appropriata alla situazione.
Tutta la delicatezza del lavoro dell'uke è in questa percezione. Deve obbligare il suo partner a lavorare al massimo delle proprie capacità.
Il livello del partner non è in causa, se il senso e la direzione sono giuste, se fa il massimo possibile, l'uke deve seguire.
Se al contrario c'è una falla e non viene indicata, l'uke non ha recitato il suo ruolo o ha mancato di vigilanza.
A un livello più avanzato i partners raggiungono una sorta di spontaneità. Il lato convenzionale sparisce dal loro scambio.
L'attacco resta controllato, ma diventa pericoloso.
La tecnica che ne scaturisce è una risposta vera che non ha nulla a che vedere con un calcolo o una riflessione. E' in effetti la sola soluzione possibile all'attacco.
Mi sembra che a questo stadio sia l'uke che determina il tenore dell'attacco. E' la forza del suo attacco che richiama l'intensità della reazione, il ritmo del corpo di uke, il suo grado morbidezza, la sua rapidità... il tori non va a valutare coscientemente gli elementi in gioco ma l'attacco gli dà un impressione globale alla quale reagisce.
La tecnica quando riesce correttamente non è né troppo forte né troppe debole, ma corrisponde esattamente, così si può dire, alla domanda. In seguito l'ultima finezza sarà giustamente di non essere presi dal ritmo del proprio partner.
Questo livello è ben al di là del livello generale dei praticanti. Se il partner impone il suo ritmo significa che vi ha attirati nel suo universo. La cometa ha saputo imporsi, strappare il pianeta dalla sua orbita.
Ma se i ritmi non si fondono insieme, dove interviene la sincronizzazione Aikido?
Se non c'è questo momento in cui i due corpi sono sincronizzati non c'è forse choc?
La soluzione potrebbe essere nel campo della percezione: a un certo livello, attacco e reazione diventano simultanei, più essere che uke e tori siano temporalmente avanti all'istante dell'attacco... ... se tori può riconoscere e giudicare l'azione di uke nell'istante stesso in cui è stata concepita, i due partners agiscono insieme.
Se questo genere di riconoscimento è reciproco il combattimento non ha più ragione di essere ed è senza dubbio di questo che parlano i celebri aneddoti giapponesi, nei quali vediamo due samurai combattere e sapere che prevale nell'istante in cui i loro occhi si incontrano."
... molti spunti di riflessione sicuramente! Un argomento che non è facile accantonare e dare per esaurito.
Ma creare molte domande, anche molti dubbi... può stimolare ciascuno di noi a cercare le sue buone risposte su un tatami, con la pratica e l'esperienza personale.
Noi ci sentiremmo appagati ed onorati anche solo se avessimo facilitato e sostenuto un po' una così importante ricerca.
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1 commento:
Discorso vieppù interessante!
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