Eccoci periodicamente di ritorno sul nostro proposito di offrire ai lettori spunti di riflessione in merito a quel insieme di “messaggi pericolosi”, che a nostro dire, è possibile sentire veicolati sui nostri tatami, in modo più o meno conscio da Maestri, allievi, compagni di pratica.
Quest’oggi un particolare spazio viene offerto ad una diffusa “linea di pensiero Aikidoistica”, ossia a quella convinzione di fondo che non sarebbe più possibile eguagliare le altezza raggiunte in passato dall’Arte ad opera dei grandi Maestri che ci hanno preceduto (H. Kobayashi, M. Saito, K. Ueshiba, K. Tohei… ancora vivo quest’ultimo, ma fuori dalla scena diretta dell’insegnamento), men che meno dal Fondatore stesso.
Soprattutto negli ambiti più tradizionali, appare infatti subito chiaro quanto lavoro sia stato compiuto nello scorso secolo da questi incredibili personaggi, al contempo sportivi instancabili, grandi tecnici, talvolta anche filosofi di alto livello.
Abbiamo confessato noi stessi nel Post “Keiko: quanto è bene allenarsi?” che sarebbe veramente ostico per l’uomo d’oggi vivere un’esperienza sul tatami anche solo lontanamente paragonabile a quella conquistata da O’ Sensei… e da molti altri grandi nomi che ne hanno seguito le orme.
La società è cambiata (anche in Giappone!) e offrire ogni energia personale per lo studio e la divulgazione di un’Arte Marziale è una missione che può coinvolgere sempre meno individui… per tante ragioni.
Un tempo l’apprendimento di tecniche di difesa poteva efficacemente fare la differenza fra la vita e la morte, ma da quando le discipline marziali hanno sviluppato una maggiore propensione a divenire strumenti di studio interpersonale per i praticanti, si è subito fatto strada un “contesto esterno” ad esse nel quale andare a confrontare le esperienze, far vivere i loro principi, sperimentarne le dinamiche (più sottili di pugni e calci…).
Questo implica però di non poter stare tutto il giorno chiusi in un Dojo a studiare, senza sentirsi addirittura svuotati del significato stesso di quello studio (leggi: “il confronto con la vita sociale di tutti i giorni”).
Forse questo è più che altro un dato di fatto, ma non è immediato il passo tristemente diffuso di credere di non poter più fare la differenza con l’Aikido rispetto al passato.
Proviamo ad esaminarne infatti le possibili ragioni.
Chi studiava un elevato numero di ore al giorno su un tatami nipponico del secolo scorso, sicuramente prima di noi riusciva a divenire padrone di alcune dinamiche del corpo e della mente, di alcune tecniche, numerose tecniche rispetto a quelle che riusciamo ad apprendere noi oggi… il suo livello di maestria era destinato a consolidarsi sempre più…. preparando le fondamenta del “mostro sacro dell’Aikido” che si avviava a divenire.
La tradizione più pura, in aggiunta, ha sempre rimandato la rigida necessità del tramandare stile, tecnica, didattica e filosofia in modo diretto ed esperienziale, ossia dal Maestro all’allievo fino al punto in cui questi non diveniva capace di analoga maestria.
I siti internet “fotocopia” di ogni nazione pululano di genealogie e lineage del tipo “O’ Sensei, ebbe come allievo (per es.) Saito Sensei, che istruì il famoso coordinatore nazionale che lo rappresenta, che si curò di insegnare al Maestro del Dojo dietro l’angolo di casa mia”.
Questo, lo ripetiamo, avviene per ogni nazione e per ogni grande allievo che generò un suo più o meno ampio seguito mondiale. Ha quasi l’aria di una investitura cavalleresca fra i personaggi coinvolti nella sequela, se non talvolta, di una sorta di “discendenza divina”, che vorrebbe dimostrare la validità e l’accreditamento del mandato attuale del Maestro X o del Maestro Y.
Talvolta però ci si scorda di consultare veramente a fondo la storia delle citatissime tradizioni secolari, con il rischio di non esaminare i fatti per quelli che realmente furono, al di là dei romanticismi nipponici.
Nel secolo scorso, Morihei Ueshiba Sensei coniò una tipologia di disciplina marziale realmente inedita al suo tempo e nella sua società: introdusse in essa l’efficacia del Bujutsu classico con l’innovativo sistema filosofico non violento che caratterizza la nostra amata Arte. Un connubio veramente azzeccato, anche per via della sua capacità di mantenersi in equilibrio fra questi due aspetti apparentemente antinomici.
Accettare realmente l’attaccante per come egli è, renderlo efficacemente inoffensivo, ma badando nel contempo di rispettarlo profondamente e quindi… di non lederlo e addirittura proteggerlo se servisse… è un pensiero di una potenza veramente vastissima, a nostro dire (e non solo nostro!).
Egli tuttavia, nel compiere questo mirabile progetto, fece realmente l’unica cosa che non ci si aspetterebbe da lui: non fu tradizionalista!
I giapponesi sono rinomati nel mondo per la loro grande capacità di copiare ed affinare le tecnologie e le arti che posseggono e quelle che contattano. Un giapponese classico pensa a come fare ancora meglio quello che sa già fare. Non è solitamente interessato e impegnato in creazioni ed invenzioni ex-novo.
O’ Sensei, invece, dopo avere appreso la tecnica micidiale del grande Maestro Sokaku Takeda, iniziò a percepire che qualcosa di questo insegnamento stonava con il suo sentire più profondo, andava, in qualche modo, contro di lui… e prese la storica decisione di cambiare strada.
Si accostò a pratiche spirituali e quindi coniò un sistema innovativo in cui venissero integrate le sue conoscenze precedenti, ma che fosse al contempo coerente con le correnti filosofici pacifiste e costruttiviste che aveva abbracciato.
In psicologia questa fase si chiama tecnicamente “la crisi dell’adolescenza”, ossia il passaggio dall’essere figli ad essere adulti: è un passaggio fondamentale della maturità di ciascuno, nel quale diventa possibile mettere in discussione “la norma” data dai propri genitori, il proprio Maestro, la propria società, per costituire il proprio sistema di valori, per abbracciare un’identità che si sente più propria, anche se essa dovesse scostarsi dai canoni sui quali altri proiettano le proprie aspettative.
Egli però storicamente lo fece e, come tutti quelli che affrontano questo delicato passaggio, ovviamente lo fece senza avere alcuna possibilità di comprendere la bontà del proprio gesto. Assumendosi alcune inedite responsabilità, si rischia infatti di fare la differenza (come poi Morihei Ueshiba seppe ampliamente dimostrare), ma anche di cadere in errori inaspettati.
Tutto quello che si ricerca in questo processo è “tentare di assomigliarsi di più”, di essere più autentici… costi quello che costi.
O’ Sensei, in modo molto distante dalla cultura del suo tempo, lo fece al di là della “tradizione di portare avanti la tradizione” del proprio Maestro (le famose discendenze divine di cui sopra), al di là del giudizio severo di coloro che rimasero molto più legati ai modi di pensare della società nipponica del 1900.
Fece il giapponese atipico, insomma… fu realmente un esempio del giapponese meno giapponese che si potesse incontrare per la sua capacità preziosa di innovare.
Perché questo excursus?
Quest’oggi un particolare spazio viene offerto ad una diffusa “linea di pensiero Aikidoistica”, ossia a quella convinzione di fondo che non sarebbe più possibile eguagliare le altezza raggiunte in passato dall’Arte ad opera dei grandi Maestri che ci hanno preceduto (H. Kobayashi, M. Saito, K. Ueshiba, K. Tohei… ancora vivo quest’ultimo, ma fuori dalla scena diretta dell’insegnamento), men che meno dal Fondatore stesso.
Soprattutto negli ambiti più tradizionali, appare infatti subito chiaro quanto lavoro sia stato compiuto nello scorso secolo da questi incredibili personaggi, al contempo sportivi instancabili, grandi tecnici, talvolta anche filosofi di alto livello.
Abbiamo confessato noi stessi nel Post “Keiko: quanto è bene allenarsi?” che sarebbe veramente ostico per l’uomo d’oggi vivere un’esperienza sul tatami anche solo lontanamente paragonabile a quella conquistata da O’ Sensei… e da molti altri grandi nomi che ne hanno seguito le orme.
La società è cambiata (anche in Giappone!) e offrire ogni energia personale per lo studio e la divulgazione di un’Arte Marziale è una missione che può coinvolgere sempre meno individui… per tante ragioni.
Un tempo l’apprendimento di tecniche di difesa poteva efficacemente fare la differenza fra la vita e la morte, ma da quando le discipline marziali hanno sviluppato una maggiore propensione a divenire strumenti di studio interpersonale per i praticanti, si è subito fatto strada un “contesto esterno” ad esse nel quale andare a confrontare le esperienze, far vivere i loro principi, sperimentarne le dinamiche (più sottili di pugni e calci…).
Questo implica però di non poter stare tutto il giorno chiusi in un Dojo a studiare, senza sentirsi addirittura svuotati del significato stesso di quello studio (leggi: “il confronto con la vita sociale di tutti i giorni”).
Forse questo è più che altro un dato di fatto, ma non è immediato il passo tristemente diffuso di credere di non poter più fare la differenza con l’Aikido rispetto al passato.
Proviamo ad esaminarne infatti le possibili ragioni.
Chi studiava un elevato numero di ore al giorno su un tatami nipponico del secolo scorso, sicuramente prima di noi riusciva a divenire padrone di alcune dinamiche del corpo e della mente, di alcune tecniche, numerose tecniche rispetto a quelle che riusciamo ad apprendere noi oggi… il suo livello di maestria era destinato a consolidarsi sempre più…. preparando le fondamenta del “mostro sacro dell’Aikido” che si avviava a divenire.
La tradizione più pura, in aggiunta, ha sempre rimandato la rigida necessità del tramandare stile, tecnica, didattica e filosofia in modo diretto ed esperienziale, ossia dal Maestro all’allievo fino al punto in cui questi non diveniva capace di analoga maestria.
I siti internet “fotocopia” di ogni nazione pululano di genealogie e lineage del tipo “O’ Sensei, ebbe come allievo (per es.) Saito Sensei, che istruì il famoso coordinatore nazionale che lo rappresenta, che si curò di insegnare al Maestro del Dojo dietro l’angolo di casa mia”.
Questo, lo ripetiamo, avviene per ogni nazione e per ogni grande allievo che generò un suo più o meno ampio seguito mondiale. Ha quasi l’aria di una investitura cavalleresca fra i personaggi coinvolti nella sequela, se non talvolta, di una sorta di “discendenza divina”, che vorrebbe dimostrare la validità e l’accreditamento del mandato attuale del Maestro X o del Maestro Y.
Talvolta però ci si scorda di consultare veramente a fondo la storia delle citatissime tradizioni secolari, con il rischio di non esaminare i fatti per quelli che realmente furono, al di là dei romanticismi nipponici.
Nel secolo scorso, Morihei Ueshiba Sensei coniò una tipologia di disciplina marziale realmente inedita al suo tempo e nella sua società: introdusse in essa l’efficacia del Bujutsu classico con l’innovativo sistema filosofico non violento che caratterizza la nostra amata Arte. Un connubio veramente azzeccato, anche per via della sua capacità di mantenersi in equilibrio fra questi due aspetti apparentemente antinomici.
Accettare realmente l’attaccante per come egli è, renderlo efficacemente inoffensivo, ma badando nel contempo di rispettarlo profondamente e quindi… di non lederlo e addirittura proteggerlo se servisse… è un pensiero di una potenza veramente vastissima, a nostro dire (e non solo nostro!).
Egli tuttavia, nel compiere questo mirabile progetto, fece realmente l’unica cosa che non ci si aspetterebbe da lui: non fu tradizionalista!
I giapponesi sono rinomati nel mondo per la loro grande capacità di copiare ed affinare le tecnologie e le arti che posseggono e quelle che contattano. Un giapponese classico pensa a come fare ancora meglio quello che sa già fare. Non è solitamente interessato e impegnato in creazioni ed invenzioni ex-novo.
O’ Sensei, invece, dopo avere appreso la tecnica micidiale del grande Maestro Sokaku Takeda, iniziò a percepire che qualcosa di questo insegnamento stonava con il suo sentire più profondo, andava, in qualche modo, contro di lui… e prese la storica decisione di cambiare strada.
Si accostò a pratiche spirituali e quindi coniò un sistema innovativo in cui venissero integrate le sue conoscenze precedenti, ma che fosse al contempo coerente con le correnti filosofici pacifiste e costruttiviste che aveva abbracciato.
In psicologia questa fase si chiama tecnicamente “la crisi dell’adolescenza”, ossia il passaggio dall’essere figli ad essere adulti: è un passaggio fondamentale della maturità di ciascuno, nel quale diventa possibile mettere in discussione “la norma” data dai propri genitori, il proprio Maestro, la propria società, per costituire il proprio sistema di valori, per abbracciare un’identità che si sente più propria, anche se essa dovesse scostarsi dai canoni sui quali altri proiettano le proprie aspettative.
Egli però storicamente lo fece e, come tutti quelli che affrontano questo delicato passaggio, ovviamente lo fece senza avere alcuna possibilità di comprendere la bontà del proprio gesto. Assumendosi alcune inedite responsabilità, si rischia infatti di fare la differenza (come poi Morihei Ueshiba seppe ampliamente dimostrare), ma anche di cadere in errori inaspettati.
Tutto quello che si ricerca in questo processo è “tentare di assomigliarsi di più”, di essere più autentici… costi quello che costi.
O’ Sensei, in modo molto distante dalla cultura del suo tempo, lo fece al di là della “tradizione di portare avanti la tradizione” del proprio Maestro (le famose discendenze divine di cui sopra), al di là del giudizio severo di coloro che rimasero molto più legati ai modi di pensare della società nipponica del 1900.
Fece il giapponese atipico, insomma… fu realmente un esempio del giapponese meno giapponese che si potesse incontrare per la sua capacità preziosa di innovare.
Perché questo excursus?
Perché di recente abbiamo riflettuto su i contenuti di un seminario al quale eravamo presenti, in merito ad una più che ripetuta insistenza dell'Insegnante che sottolineava l'ineguagliabilità dei grandi Maestri di Aikido che ci hanno preceduto... O' Sensei in testa. Il nostro spunto nasce da una frase, che più di altre ci ha colpito: "Non inventatevi niente, perché tutto quello che c'era da inventare è già stato inventato".
Specie nei contesti in cui viene attribuita grande valenza all'aspetto tecnico della nostra Arte, pare più che doverosa una grande attenzione a ciò che si fa sul tatami, a riguardo degli angoli, alla distribuzione dei pesi, al mantenimento di una forma chiara e facilmente trasmissibile...
Le parole dette da quel Maestro ci sono suonate "familiari", poiché ricordavamo di averne già sentite pronunciare di simili da un importante scrittore e filosofo del 1800, incontrato sui banchi di scuola e sui libri di filosofia. Costui era un tal Friedrich Nietzsche... famoso per il suo culto dell'insuperabilità dell'arte teatrale greca, alla luce della quale, secondo lui sarebbe stato già possibile spiegare tutto quanto esisteva in materia... ed impossibile inventare ulteriori cose che migliorassero una tale magnificenza...
Non ci è sembrato tanto diverso il discorso...
Né ora, né qui ci sentiamo di discordare con la saggezza contenuta nell'umiltà di studiare giorno per giorno cercando di pretendere sempre più da se stessi...
ma ancora il valore "assoluto" di quelle parole ci ha spaventato, a causa delle seguenti riflessioni...
Certo che il Grande Maestro “Tal Dei Tali” poteva esibire 20 variazioni di una tecnica, mentre noi ne conosciamo magari solo un paio… certo che si rischia di mandare perduto un immenso bagaglio tecnico che con gli anni ed il sudore i grandi del passato hanno radunato.
Ma noi dobbiamo esclusivamente competere tecnicamente con i tempi che furono?
Perché migliorare ogni giorno se stessi dovrebbe essere sinonimo di non piacersi mai del tutto! Chi lo ha detto?!
I testi più autorevoli di psicologia affermano esattamente il contrario: non si può fare nessun cambiamento/progresso autentico se non ci si accetta profondamente per ciò che si è, istante per istante.
Masakatsu agatsu significa "vinci su te stesso", ogni giorno, non "quello che farai non sarà mai sufficiente ad arrivare dove giunsero i Grandi"...
Altrimenti praticare Aikido sarebbe una continua svalutazione, anziché un'inesauribile risorsa!
Non tutti gli Aikidoka, certo, sono destinati a giungere alle vette a cui arrivò O' Sensei, ma questo ne rende forse insignificanti gli sforzi?
E' più importante diventare fedeli copie di un grande del passato o autentici esemplari della propria individualità?
Sappiamo che rari saranno coloro capaci di brillare per genialità tanto quanto fece il Fondatore… ma se si volesse essere veramente tradizionali, non sarebbe anche doveroso il tentativo di compiere un analogo passo verso la propria maturità nell’Arte, oltre che tentare di apprendere la sua tecnica?
Se non potessimo rendere interessante la nostra attività nel contesto attuale in cui viviamo (leggi: “non possiamo innovare”) e fossimo coscienti che ogni sforzo compiuto non sarebbe nemmeno sufficiente a porci “all’altezza” di chi ci ha preceduto… perché praticare ancora?
Avremmo già perso in partenza la possibilità di fare qualsiasi differenza con il nostro operato!
Preservare la tradizione riteniamo sia veramente importante, poiché essa è un contenitore colmo di principi importantissimi da vivere… ma farsi travolgere da questa “missione” come fosse un dictat assoluto è qualcosa a cui pare abbia rinunciato Ueshiba stesso.
Diciamo piuttosto che ci pare coerente sentirci autorizzati ad essere tanto tradizionali, quanto anticonvenzionali come egli stesso seppe essere, assumendoci cioè le nostre nuove responsabilità in merito a dove faremo dirigere l’Aikido nei prossimi anni, grazie al nostro impegno.
La mitizzazione di O’ Sensei e dei grandi suoi allievi del passato ci pare educativamente pericolosa, perché ci tiene legati ab-libitum alla condizione di Aikidoka “figli”… e ci viene in mente che questo potrebbe essere di grande utilità anche ai “Maestri” che ci fanno volentieri da genitori, per mantenere intatta la nostra sudditanza e dipendenza nei loro confronti, oltre ad essere una posizione che svaluta a priori le proprie risorse.
I Maestri veri non dovrebbero temere di essere abbandonati dai propri allievi, come successe a Takeda Sensei, se questo volesse dire far sbocciare un “nuovo” Fondatore (leggi:”innovatore”).
Qualcuno potrebbe ribattere che i grandi geni paiono scarseggiare sui tatami attuali, ma questa argomentazione non spiegherebbe tuttavia come mai, anche dove la tradizione tecnica e filosofica viene mantenuto con assoluta rigidità, i praticanti spesso mostrano di brillare molto meno dei loro Insegnanti (leggi: “non sono nemmeno capaci di copiare bene”)!
Forse si rischia semplicemente di diventare cattivi Aikidoka sia se mantenuti in cattività, sia se si prova ad essere free landers… ma il senso della nostra riflessione è proprio quello di evidenziare l’ottica relativa di ogni dogma che pare possa esprimersi sull’Aikido.
Ciò non tanto per amore della relatività in sé, quanto nella speranza di poter identificare meglio in futuro ciò che in Aikido possa essere considerato più essenziale, fermo e profondo… a costo di fare qualche esperimento in più. Probabilmente O' Sensei non sarebbe stato entusiasta di creare un'Arte destinata esclusivamente all'inesorabile appiattimento o declino dopo la scomparsa sua e dei grandi che lo seguirono: doveva forse avere in mente qualche cosa d'altro quando affermava che l'Aikido era per l'umanità...
Il discorso non è semplice: cosa tenere del passato, cosa poter permetterci di tralasciare, cosa innovare?
Diteci la vostra, ma nel frattempo una nostra ricerca mirata sta già portando alcuni interessanti risultati su forme nuove, inedite e a nostro dire intelligenti di adattare al meglio l’Arte ai nostri tempi… con risultati di pubblica utilità indiscussi, perfettamente in linea con la filosofia del Fondatore ed i cui affascinanti orizzonti paiono essersi appena dischiusi.
La prossima settimana sarà on-line il Post che ne parla.
La mitizzazione di O’ Sensei e dei grandi suoi allievi del passato ci pare educativamente pericolosa, perché ci tiene legati ab-libitum alla condizione di Aikidoka “figli”… e ci viene in mente che questo potrebbe essere di grande utilità anche ai “Maestri” che ci fanno volentieri da genitori, per mantenere intatta la nostra sudditanza e dipendenza nei loro confronti, oltre ad essere una posizione che svaluta a priori le proprie risorse.
I Maestri veri non dovrebbero temere di essere abbandonati dai propri allievi, come successe a Takeda Sensei, se questo volesse dire far sbocciare un “nuovo” Fondatore (leggi:”innovatore”).
Qualcuno potrebbe ribattere che i grandi geni paiono scarseggiare sui tatami attuali, ma questa argomentazione non spiegherebbe tuttavia come mai, anche dove la tradizione tecnica e filosofica viene mantenuto con assoluta rigidità, i praticanti spesso mostrano di brillare molto meno dei loro Insegnanti (leggi: “non sono nemmeno capaci di copiare bene”)!
Forse si rischia semplicemente di diventare cattivi Aikidoka sia se mantenuti in cattività, sia se si prova ad essere free landers… ma il senso della nostra riflessione è proprio quello di evidenziare l’ottica relativa di ogni dogma che pare possa esprimersi sull’Aikido.
Ciò non tanto per amore della relatività in sé, quanto nella speranza di poter identificare meglio in futuro ciò che in Aikido possa essere considerato più essenziale, fermo e profondo… a costo di fare qualche esperimento in più. Probabilmente O' Sensei non sarebbe stato entusiasta di creare un'Arte destinata esclusivamente all'inesorabile appiattimento o declino dopo la scomparsa sua e dei grandi che lo seguirono: doveva forse avere in mente qualche cosa d'altro quando affermava che l'Aikido era per l'umanità...
Il discorso non è semplice: cosa tenere del passato, cosa poter permetterci di tralasciare, cosa innovare?
Diteci la vostra, ma nel frattempo una nostra ricerca mirata sta già portando alcuni interessanti risultati su forme nuove, inedite e a nostro dire intelligenti di adattare al meglio l’Arte ai nostri tempi… con risultati di pubblica utilità indiscussi, perfettamente in linea con la filosofia del Fondatore ed i cui affascinanti orizzonti paiono essersi appena dischiusi.
La prossima settimana sarà on-line il Post che ne parla.
3 commenti:
Discorso interessante, ma che non è scevro da rischi.
Secondo la mia modestissima esperienza, in realtà ciascun insegnante in qualche modo "innova" l'Arte, proprio perché la trasmette a modo suo e con i propri mezzi.
Poi alcuni ne sono consapevoli ed altri no, ed il rischio di atti inconsapevoli è ben alto.
Certo, come dice un saggio, ciò che è fermo per sempre è morto.
carlo
p.s. come posso fare per procurarmi/acquistare il libro di Marco sensei, che mi pare assai interessante? Sul sito FIJLKAM non hanno notizie... sarà possibile trovarlo in qualche prossimo seminario TAAI e/o FIJLKAM oppure in qualche libreia online o anche "brevi PP.TT." con richiesta all'autore?
Ciao Carlo,
trovo molto coerente ciò che affermi, ma appositamente volevo si riflettesse sull'enorme salto nel buio che hanno avuto il coraggio di fare tutti i free-landers che si sono avventurati per la loro strada senza avere modo di comprendere se avrebbero o meno fatto cilecca. Dopo uno come O' Sensei è difficile forse ardire a qualcosa di meglio... ma ciò lo avrebbe potuto anche pensare lui nei confronti delle Arti Marziali di Takeda Sensei...
Per ordinare il testo "Aikido: didattica e pratica" è sufficiente scrivere una e-mail all'indirizzo "artimarziali@fijlkam.it" all'attenzione della Sig.ra Paolini, ed il volume (gratuito) verrà inviato a domicilio al costo di 10 Euro, per coprire le spese di spedizione.
In effetti, credo che chi ha, a diversi livelli, l'onore e l'onere di insegnare, dovrebbe ben ponderare questa questione.
Personalissimamente consiglio ai miei allievi di vivere le tecniche come i solfeggi musicali, non è ancora melodia compiuta ma è l'indispensabile modo per poterla poi comprendere (nel senso etimologico del termine).
Poi... poi la quinta sinfonia di Beethowen è uguale per tutti, ma ciascun vero musicista la esegue in maniera "diversa"...
;-)
carlo
p.s. grazie per la info sul libro, provvedo subito all'ordine
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