La parola stessa "conflitto" ha come etimologia "urto", "scontro".
Noi pratichiamo una disciplina nella quale ogni urto, ogni scontro può diventare occasione per un'armonizzazione, un incontro: un bel cambio di paradigma, non c'è che dire!
Però in Aikido ciò è possibile - se e solo se - esiste un potenziale CONFLITTO da trasformare in qualcos'altro di più proficuo e significativo per chi lo vive.Nello scrivere questo Post stavo invece riflettendo su tutte quelle situazione nelle quali l'Aikido tende forse (e purtroppo) ad essere vissuto senza che al suo interno vi sia alcuna forma di CONFLITTO.
Tori si armonizza ad uke, senza favorire alcuna forma di resistenza, e di "scontro" [perché ciò gli consente di non ferirsi]... uke, dal canto suo, cerca di ricevere la tecnica del suo compagno senza resisterle, ma di utilizzare la strada che questi gli offre per uscire incolume dal "duello".
Ad un certo punto uno si armonizza per le sue ragioni, l'altro pure... e il CONFLITTO dov'è finito?Talvolta è stato TRASFORMATO, sublimato... altre volte NON c'era proprio, sin dall'inizio.
Mi è capitato più volte di essere ospitato da gruppi estremamente cordiali, nei quali le tecniche venivano eseguite con assoluta fluidità ed estetica: l'unico problema che riscontravo era:
- un uke che non attaccava mai sul serio, quindi non mettendo mai (ed in alcun modo) in difficoltà il suo compagno;
- un tori che non chiudeva mai nessuna tecnica fino in fondo, per lasciare al compagno una via più facile per uscire dai suoi impasse.
Ci troviamo quindi in presenza di un "Aikido SENZA il conflitto".La domanda che mi sono fatto tutte quelle volte - e che ora condivido insieme a voi - è: possiamo ancora definire Aikido tutto ciò?
Esistono molte discipline che si fanno a coppia (o in gruppo), nelle quali è necessario sviluppare una certa abilità di percezione di sé e dell'altro, una certa sincronia, capacità di timing sottile, gestione delle distanze, pensiamo solo al pattinaggio artistico, al tango, nuoto sincronizzato, etc...
L'unica cosa che le accomuna è il non essere ambientate in un'atmosfera conflittuale: ci può essere una sfida (duello?) con altre coppie/squadre che fanno la stessa disciplina, ma lo scontro sta esplicitamente al di fuori della coppia del gruppo.
Nelle Arti Marziali il CONFLITTO invece ci sta dentro, all'opposto.
Ci sono quindi aspetti nei quali l'Aikido assomiglia più a queste ultime, ed altri aspetti nei quali invece sembra più simile all'elenco di discipline fatte poc'anzi: ma cos'è l'Aikido se non c'è il CONFLITTO?
Forse si limita a ridursi ad un gruppo di persone che si ritrovano volentieri insieme (che non è affatto poco, di questi tempi!) ad eseguire delle forme a mandorla, come fossero balli a coppia o di gruppo.
Delle Saṅgha (comunità) nelle quali si condividono interessi comuni e ci si da una sorta di regolamento gerarchico interno, che distingue i laici dai prelati, o i kohai dai senpai... i deshi dal Sensei se vissuto "alla giapponese".
Però, se ci limitiamo a questo, Morihei Ueshiba non avrebbe portato alla luce nulla che non fosse già presente (i primi Saṅgha sono del 400 a.C.).Facciamo un esempio terra terra: c'è un allievo/a che arriva per un paio di volte al Dojo con i piedi o le ascelle che puzzano...
La prima volta si è tutti un po' a disagio, si cerca di capire chi è... e quindi si evita come la peste il tizio o la tizia con l'aura verde che sa di stallatico.
Ma se accade di nuovo, bisogna dirgli qualcosa o dobbiamo tutti sopportare i suoi effluvi?
È rispettoso per le nostre narici (e pure per le sue, forse poco sensibili) fargli notare che è necessario avere cura della propria igiene personale e del proprio abbigliamento se si condivide dello spazio con gli altri: specie se si giunge ad una cera prossemica ravvicinata, come nell'Aikido.Nel fare questo (con tutto il tatto di questo mondo) possiamo dirigerci verso una sua comprensione o anche verso una sua chiusura, un suo sentirsi giudicato male dagli altri... al limite verso una zona nella quale andare in conflitto con lui/lei.
Magari chi si lava una volta all'anno nel Gange potrebbe non comprender le ragioni di chi ha il bidet a casa!
Ma il CONFLITTO è forse qualcosa al quale rinunciare per andare per forza d'accordo?Secondo me NO.
Ci sono CONFLITTI che valgono assolutamente la pena di essere vissuti, anche perché senza di essi non ci può essere alcuna reale evoluzione.
Se il mio uke non mi attacca mai veramente, non mi fa mai correre alcuna forma di rischio reale... per quale ragione dovrei imparare a togliermi dalla sua traiettoria?
Per fargli un favore, o per farne uno a me stesso?
Ovvio che mi parrebbe scemo attaccare al massimo della velocità e dell'intensità un neofita, "giusto per fargli vivere un conflitto reale": deve prima possedere la capacità di farsene qualcosa di utile, non deve essere sovrastato e schiacciato dalla sua stessa esperienza!
Ma non possiamo sempre "fare finta": ci dovrà pur essere un giorno nel quale se non ti togli da sotto il mio bokken, ti apro la testa come un'anguria... o no?
Stessa cosa dicasi per un tori che non chiude mai alcuna tecnica per non ledere il proprio compagno: certo che a volte succede che un neofita mi attacchi ad un'intensità molto superiore a quella alla quale è poi capace di ricevere la tecnica a sua volta... ma appunto, si tratta di un neofita.
In questi casi tori frena, o accetta che la sua tecnica risulti "castrata" poiché non ha intenzione di ferire il suo uke: ma esiste un livello un livello al quale se questi attacca a 1000, poi si assume la responsabilità di amministrare i suoi 1000 che tornano indietro?
Non di più, solo ciò che lui ci ha dato... ma quelli tutti fino all'ultima goccia, però: qualcosa di quindi DIRETTAMENTE proporzionale.Secondo me, si: anzi, se questo non avviene in alcun caso, stiamo contribuendo a sottrarre uno degli elementi più importanti all'allenamento, ovvero il conflitto stesso e la gestione del rischio che da questi consegue.
Un uke compiacente può essere il miglio modo pre approcciare la nostra disciplina, perché da tempo di imparare al sicuro... ma un uke SEMPRE compiacente non mi fa evolvere, perché non ci mette fuori dalla mia zona di comfort, ovvero l'unico luogo nel quale questo può avvenire!
Il principio di integrità dovrebbe restare il primo requisito della pratica, quindi okkyo a fare cose che sono incompatibili con il proprio ed altrui sistema psico-corporeo: tuttavia nemmeno questo dovrebbe essere un tappo per la propria crescita, o una scusa per non farla.
Un tempo con le Arti Marziali si rischiava la vita su un campo di battaglia, e proprio questo le distingue (ancora oggi) dagli "Sport da combattimento", che sono (necessariamente) pieni di regole da rispettare, proprio per preservare l'incolumità di chi li pratica.
Il RISCHIO era qualcosa di contemplato nella pratica, e - tutto sommato - lo è ancora, o lo dovrebbe essere; per fare un esempio pratico fra molti: "aprire un Dojo" non è come "fare finta di aprire un Dojo"... le responsabilità che ci si assume ed i rischi di insuccesso sono REALI.
Non rischiare mai in prima persona e non fare rischiare niente agli altri - in realtà - ci espone a tutta un'altra serie di RISCHI, per quanto paradossale ciò possa apparire. Uno fra tutti è quello di guardare la vita dalla finestra, provando un senso di inutilità ed impotenza.
Vogliamo allora educare gli allievi ad assumersi le loro responsabilità, pur anche se in dosi omeopatiche?
Io credo che sia importante: eliminare completamente il rischio ed il conflitto è un buon viatico per "giocare al Budo"... e poi auto-convincersi che non sia un gioco, ma la realtà.
E svegliarsi da questo incanto può fare più male che non esserci mai cascati dentro... oltre a rendere il Dojo una sorta di dopolavoro, piacevole - per carità - ma dove tutto si fa, tranne che crescere.
Talvolta, avere CONFLITTI perché le persone imparino a lavarsi i piedi, ci allontana dal RISCHIO di sentire una certa puzza.Talvolta RISCHIARE è l'unico modo per non crogiolarsi in una falsa atmosfera di pace con se stessi, che tenta maldestramente di coprire il CONFLITTO che non abbiamo avuto il coraggio di affrontare.
Marco Rubatto
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