Posso sperare di poter cogliere qualcosa di questo rapporto, perché lo vivo da entrambe le prospettive: sono un Maestro di un numero sempre crescente di persone, ma sono contemporaneamente anche un Allievo... e così ho ancora intenzione di rimanere, fino a quando la strada non mi suggerirà qualcos'altro.
Qui in occidente facciamo i corsi di qualsiasi cosa perché pensiamo di imparare delle nozioni specifiche, magari di acquisire delle skills particolari... ma secondo la tradizione in oriente - dove la nostra disciplina è nata - i corsi si frequentavano ben in altro modo e per ben altre ragioni.
Il "Sensei"/mentore è colui che è "arrivato prima" sulla Via che anche noi stiamo percorrendo, quindi ci AFFIDIAMO a lui, perché ci guidi lungo il cammino...Si, ma quale cammino?
Il SUO o il NOSTRO?
Utilizza il SUO cammino, per aiutarci a percorrere il NOSTRO: se facesse altro, starebbe manipolando il suo allievo/apprendista.
Cosa ci guadagna il Sensei a fare il Maestro?
È un filantropo, che compie la sua opera di insegnamento per motivi esclusivamente altruistici? Manco per il kakkyo!
Un modo che ha il "Maestro" per migliorarsi è quella di SPECCHIARSI nei suoi allievi e - dando se stesso completamente a loro - fa spazio perché qualcosa di nuovo in sé possa nascere e crescere.
Egli si dona, ma ha un suo tornaconto nel farlo... anche se questo tornaconto non lo deve chiedere agli allievi in modo diretto o indiretto, sotto forma di gratitudine, o di qualche forma di riconoscenza.
Ho detto che non lo deve pretendere, non che sia sbagliato che gli allievi provino gratitudine e riconoscenza per il loro Sensei: quando questo avviene in modo spontaneo è qualcosa di nutriente e piacevole, non deve però diventare un nutrimento che viene preteso o dato per scontato.
Ogni tanto accade: diciamo che 2-3 allievi su 10 tendono ad essere spontaneamente riconoscenti, statisticamente parlando.
Il Maestro quindi fa il Maestro perché questo è il modo grazie al quale evolvere.
L'Allievo - d'altra parte - è sulla Via perché ritiene che starci sopra sia per lui meglio che non farlo: anch'egli crede che quello sia il suo modo di evolvere, di fare il prossimo passo nei confronti di se stesso. Di solito si approccia al suo cammino perché vuole risolvere alcuni suoi problemi contingenti e crede che fare un determinato percorso glielo consentirà.
Solo che è un novellino ed è alla ricerca di un mentore che gli possa dare supporto in un cammino denso di parecchio potenziale... ma anche irto di insidie, pericoli e trappole.
L'Allievo quindi comprende che affidarsi ad un mentore diventa una sorta di scorciatoia, che gli consente di non perdere troppo tempo ad imparare dai propri errori... ma facendo tesoro degli errori che ha già fatto qualcun altro prima di lui. In questo modo si sancisce una DOPPIA forma di interesse di queste due figure ad entrare in relazione:
- il Maestro per evolvere ulteriormente GRAZIE al rapporto con i suoi allievi;
- gli allievi per evolvere più rapidamente di quanto sarebbero capaci di fare sono contando sulle proprie forze.
Da ciò che si evince che Maestro ed Allievo si utilizzano a vicenda per ottenere in fondo la stessa cosa... anche se a livelli differenti di consapevolezza e di profondità.Dovrebbe essere quindi un rapporto WIN/WIN, più che una relazione di origine parassitaria, nella quale l'uno scrocca qualcosa dall'altro...
Trovare un bravo Maestro quindi è qualcosa di molto importante perché il nostro cammino sia proficuo... tant'è che in oriente si dice: "Tre anni spesi a cercare il proprio Maestro, non sono tre anni sprecati".
Quindi ora mi declino nelle DUE prospettive specifiche, per provare a delinearne i tratti.
IO ALLIEVO
Quando sono con il mio Maestro, mi trovo in una dimensione molto particolare, poiché sento di "funzionare" spontaneamente in modo molto più potente di quello normale. In sua compagnia le intuizioni che arrivano sono continue, come in uno stato di "iper stimolazione" della mia intuitività; è come se "mi accendesse"...
Spesso sono anche il suo traduttore (perché parla inglese) e questo mi consente di andare quasi in consonanza di pensiero, in qualche modo di percepire la sua intenzione comunicativa ancora prima di sentire i fonemi che pronuncia. È uno stadio di comunione personale molto intenso ed energicamente molto dispendioso da mantenere per periodi prolungati.
Quando viene a trovarmi per 3 giorni, poi me che ne vanno 10 per riprendermi dalla fatica (che in questo caso è anche organizzativa degli eventi, oltre che psico-fisica): però sono giorni densi, che possono poi essere "spacchettati" per i mesi seguenti... quasi che il nutrimento che ricevo in poche ore poi possa essere materiale sul quale lavorare per un tempo molto più lungo, quando poi saremo di nuovo lontani.
Il mio Maestro abita in Svizzera, quindi di solito ci vendiamo circa 3 volte all'anno, per un totale di 10-12 giorni in tutto. Poi ci sentiamo spesso e restiamo sempre in contatto... ma ogni incontro è qualcosa di particolarmente denso e significativo, qualcosa che "lascia il segno".Essendo egli deputato ad indicarmi anche i possibili sbagli che sto commettendo, le trappole e le perdite di tempo nelle quali posso perdermi, non è sempre piacevole stare in compagni del mio Maestro, specie quando egli - per suo stesso mandato - deve correggermi e magari rimandarmi le pecche che vede in me.
In passato lo pativo un po', perché prendevo le sue indicazioni, ed anche alcuni suoi rimproveri, come qualcosa di molto personale... qualcosa che avrei desiderato finisse il prima possibile.
Dopo ANNI di rapportazione però ora le cose sono cambiate, ed inizio a comprendere in modo sperimentale l'importanza di quel "i shin den shin" (comunicare da cuore a cuore) che la tradizione giapponese rimanda come ESSENZIALE.
L'unione deve essere pressoché totale, pur entrambi consci di essere due persone differenti, talvolta con idee anche molto distanti fra loro (anche in contrasto, in alcuni ambiti): ma non è una questione di essere "uguali", ma di essere "insieme" nel modo più intimo ed autentico in una relazione di mutuo supporto ed evoluzione.Prendermi cura del mio Sensei è qualcosa che mi onora, ma che mi viene naturale anche se questi non me lo richiedesse: se lui sta bene, sta bene la mia fonte di evoluzione... non è altruismo per me metterlo a suo agio, forse è più sano egoismo, perché potrò evolvere di più e più velocemente!
Non c'è spazio per nessuna forma di "servilismo" dovuto al mio status di allievo, nei confronti di una figura ritenuta "superiore": questo è un equivoco molto comune, ma il Maestro non è per niente superiore all'Allievo... è solo ad un altro stadio dello stesso processo, ma in fin dei conti anch'egli continua ad essere un allievo (di qualcun altro, o per sua stessa attitudine rispetto alla vita).
C'è una forma di paradosso molto complesso da comprendere: è un rapporto alla pari fra due figure molto diverse fra loro... qualcosa che la mente razionale fa fatica a spiegare, ed è forse proprio per questo che nella tradizione si parla di comunicazione "da cuore a cuore".
Qualcosa che va sentito e vissuto emotivamente, ben al di là della logica o del mero livello mentale; ma quante persone al giorno d'oggi si lasciano trasportare in una relazione interpersonale così intensa, profonda e complessa?Una relazione nella quale l'entanglement (direbbero i fisici) è praticamente assoluto: non per nulla un tempo gli allievi VIVEVANO insieme al Maestro, lo supportavano nelle faccende di casa, come fossero familiari consanguinei. Non c'era una frequenza bisettimanale per un paio d'ore... il coinvolgimento personale era (ed è ancora nelle Scuole tradizionali) molto intenso, ovvio che ci si conoscesse tutti ad un livello molto profondo, condividendo ogni giorno e per anni momenti legati alla pratica e momenti di normale vita quotidiana.
IO MAESTRO
A differenza di un tempo, non ho alcun timore a definirmi "Maestro", mentre per molti anni in passato mi è parso che questo termine fosse un po' ridondante o altisonante per me. E questo cambiamento NON è avvenuto perché una Federazione Nazionale mi ha fornito un foglio di pergamena sul quale c'era scritto "Maestro"... ma quando ho compreso di essere giunto ad una qualche livello di "maestria" di ciò che faccio... non di tutto e non sempre, ovviamente.Il fatto di essere "Maestri" infatti è tutt'altro sinonimo di essere perfetti o infallibili, anzi: abbiamo visto poc'anzi che il Sensei è egli stesso in un processo evolutivo costante... quindi destinato a cambiare in continuazione, nella speranza di migliorarsi.
Il rapporto con i miei allievi di solito è abbastanza sereno, ma non sono mancate (e non mancheranno) i momenti di tensione e le difficoltà da superare.
Quello che è palese ai miei occhi è che pur riversando notevole impegno del dare supporto a tutti loro, ci sono alcuni più capaci di altri di fare tesoro di ciò. Alcuni sembrano impermeabili a qualsiasi tipo di rimando che serva loro a crescere. Stanno li, un po' come soprammobili, che sembra abbiano intenzione - un giorno - di rendere operative le informazioni che hanno ricevuto...
Siccome pretendo abbastanza da me stesso, tendo a pretendere molto anche da loro... e non è sempre semplice per me a livello emotivo costatare quanto la loro voglia di apprendere sia spesso solo una frazione di quella che mi sarei atteso che avessero.
Sto imparando - dopo anni - a non prendere troppo sul personale la delusione delle MIE aspettative, ricordandomi appunto che erano le MIE e che come tali potevano essere solo delle proiezioni illusorie sugli allievi, distaccate dalla realtà dei fatti.Alcuni - pochissimi in realtà sul numero totale - noto che provano a mettersi nei miei panni e non pre-giudicano le mie azioni senza prima avere compiuto l'inestimabile tentativo di "comprendermi".
Ho ben chiaro come talvolta risulti quasi insopportabile per diversi allievi, e ciò mi spiace... ma vorrei dire loro che anche in questo non vi è nulla di personale contro di loro, se non il desiderio di offrire più supporto possibile.
Il difficile è aiutare con la stessa lingua con la quale si desidera essere aiutati però: molti di loro non sanno ancora nemmeno ciò di cui necessitano sul serio, quindi è naturale che mi vivano come un rompiballe quando smonto i loro castelli in aria, nel tentativo di farli aderire di più alla (loro) realtà.
Il mio ruolo è sempre border-line, perché un aiuto in meno è poco ed un aiuto in più può rivelarsi troppo: l'arte sta nel crescere con loro, ma attendendo che ciascuno impieghi il proprio tempo per farlo. E ciò è complicato da realizzare e vivere ogni giorno.In passato sono stato sicuramente un cattivo Maestro, perché ora mi rendo conto di avere fatto moltissimi errori, sia con me stesso, che con i miei allievi: non so se ora sono meglio, ma sicuramente cerco di utilizzare le mie esperienze (anche quelle più fallimentari) per calzare il ruolo meglio che posso.
Alla fine, anche in questo, Maestro ed Allievi sono simili: fanno tutti "meglio che possono", anche quando sembra che ciò non sia sufficiente all'una o all'altra categoria.
Essere Maestro mi sta insegnando molto sulla pazienza e sulla lungimiranza, e sul paradosso del rimanere libero e lasciare liberi gli altri.
Impegnarsi in una disciplina come missione nella vita lascia poco spazio ad eventuali ripensamenti o cambi di rotta, poiché tutto è finalizzato in un'unica direzione, che per me è l'Aikido.
Non posso però certo pretendere che - siccome ho fatto questa scelta - la debbano fare pure i miei allievi: in questo senso è come se pretendessi da me tutto e dagli altri solo ciò che ritengono sano offrire alla disciplina.
Questo insegna parecchio sulla gratuità del dare, o perlomeno (siccome abbiamo visto che anche il Sensei ha un suo tornaconto) sul dare senza voler tenere sotto controllo come, cosa e quando le cose potrebbero tornare indietro. É un esercizio di fiducia in sé e nella strada che ciascuno ha scelto di percorrere.
Questo trovo che sia un esempio vivo, concreto e potenzialmente molto ispirante da offrire al prossimo... anche senza pronunciare una sola parola.
Un Allievo cerca nel rapporto con il suo Maestro una Via per riconnettersi a se stesso, ma forse un Maestro fa altrettanto con l'allievo, pur in modo più consapevole: ne segue che l'allievo alle prime armi forse vorrebbe fagocitare il proprio Sensei... vorrebbe spremerlo come un limone, per poi magari buttarlo via quando non gli sembra più utile.Un Maestro invece sa che ci va rispetto sempre e con tutti, provando a continuare a rispettarsi, mentre prova a rispettare anche tutti coloro che camminano dietro a lui, o al suo fianco.
Un ultimo pensiero lo dedico a quei miei allievi che, in qualche modo, hanno scelto a loro volta la via dell'insegnamento: sono già parecchi ormai, e con loro il rapporto è particolarmente significativo, anche se non sempre semplice.
Non sono più solo Allievi, ma ai miei occhi non sono ancora diventati veramente Maestri: sono in una terza inedita posizione, qualcuno da non chiamare più "neofita", ma da non poter chiamare ancora del tutto "collega".
Con loro cerco di collaborare più come fratello maggiore che come "Sensei che fa piovere le cose dall'alto" (in realtà questa è una cosa che cerco di evitare pure coi neofiti!), eppure anche in questo caso non è sempre facile comunicare... perché alcuni di essi non si rendono conto di quanto già potrebbero fare ANCHE senza il mio aiuto, mentre altri non si rendono ancora conto quanto POCO potrebbero in realtà fare senza il mio aiuto.Alcuni si credono 6º kyu, anche quando sono 2º dan, altri si credono 8º dan anche se sono 2º dan: cosa fare in questo casi?
Provo a metterci il cuore ed a ricordarmi quando ero io al loro posto: alcune volte ci incontriamo proprio a livello del cuore, con il BENE che ci vogliamo a vicenda e che ci consente di farci tralasciare cosa ci divide, per farci apprezzare cosa di inestimabile ci unisce.
Insomma, è proprio vero che la tradizione ha avuto tempo di vederci chiaro e bene: pensavo che il cuore fosse solo una pompetta per il riciclo del sangue... invece sto riscoprendo essere un importantissimo connettore fra i destini delle persone... i shin den shin.Marco Rubatto
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