Nelle tecniche di Aikido, atterrare il proprio uke è qualcosa di auspicato: proiettandolo o immobilizzandolo al suolo... ma al suolo comunque deve finire!
Cosa rappresenta il suolo?
Simbolicamente, la madre terra, l'elemento dal quale tutti proveniamo... ciò che ci da la vita.
"Volare in cielo" si usa spesso per persone che muoiono... e pure "andare sotto terra": invece "toccare terra" viene utilizzato da chi vola in aereo, deltaplano o elicottero... come sinonimo di concludere un viaggio, ritornare da dove si è partiti.
Invece, "toccare il fondo" risulta ciò che è necessario fare per ripartire daccapo, con uno slancio rinnovato.
Andare a terra quindi può essere visto come una condizione positiva, di "rinascita"... non per forza come una sconfitta, una perdita.
Potremmo dire che per uke perdere l'equilibrio e finire per terra rappresenta una chance di rinascita, trasformazione ed evoluzione di energie ed intenti.
POSITIVO, quindi!
Ma mentre uke ha comunque questa opportunità, se la sa cogliere... quand'è che la sua caduta migliora la vita del suo compagno, tori?
Ce lo chiediamo poiché sovente abbiamo percepito che rispondere non è per nulla qualcosa di scontato.
Se un tori non atterra il proprio uke, di solito è segno che qualcosa nella sua tecnica deve essere andato storto.
L'Insegnate mostra come fare, poi la classe tenta di imitarne i movimenti, a ruoli alterni.
Quando tocca a noi il ruolo di tori, ci sentiamo "in errore"- di solito - se non ci riesce di mandare al suolo il nostro attaccante...
Ciò ci spinge a falsare in parte la nostra azione, magari utilizzando più forza di quella che servirebbe se fossimo riusciti ad usare quella dell'attacco... ma l'importante è che uke cada!
L'aspettativa di ciò che deve avvenire si impadronisce di molti di noi, facendoci optare per una forzatura nel nostro rapporto con il partner, al fine di ottenere ciò che dovrebbe avvenire se solo noi fossimo già armonici: usare la forza se serve... ma mandarlo a terra!
Non siamo certi che ciò ci migliori la vita, anche se riuscissimo a compiacere le aspettative nostre e di un Insegnante che non si accorge dei nostri truschini.
Ed allora quand'è che atterrare qualcuno migliora la vita di tori?
Proviamo ad indicare ciò che al momento abbiamo compreso in merito, pur non trattandosi di nulla di definitivo, né di certo.
Già molto anni fa, ci colpirono molto le parole del Fondatore: "Ferire il proprio avversario è come ferire se stessi"... bizzarro tutto ciò nell'ottica di una disciplina marziale, nella quale dobbiamo cercare di salvarci la vita dagli attacchi di questo avversario!
Ma cosa ci può essere dietro quindi alle sue parole?
Crediamo che Morihei Ueshiba avesse scoperto una dimensione non-duale, nella quale tori ed uke potessero percepirsi come una sorta di unico ESSERE, o meglio, nel quale uke potesse impersonare la parte in ombra del proprio avversario.
Uke potrebbe rappresentare quella parte interna di noi che ancora non conosciamo del tutto, e dalla quale sovente ciascuno di noi tende numerose trappole a se stesso.
Tori, in qualche modo, teatralizza il suo conflitto interiore all'esterno... ed uke lo aiuta a recitare la parte della sua parte in ombra. Uke fa lo specchio di ciò che tori non vede di sé!
A questo punto, mentre la parte in ombra di noi stessi ci attacca, non possiamo né permetterci di farla vincere... né di distruggerla per difenderci, poiché per quanto scomoda quella parte ostile è sempre ROBA NOSTRA!
Quindi uke attacca, tori deve rendere questo attacco inefficace... ma contemporaneamente deve pure garantire la completa protezione del suo avversario, che - come dicevamo - è qualcosa che lo riguarda a livello molto personale.
Tori non vuole rompere lo specchio che gli consente di conoscere se stesso: sarebbe un idiota a farlo!
Ed ecco la sua enorme difficoltà: salvarsi la vita e curarsi anche dell'incolumità di quella parte di sé che lo sta attaccando.
Crediamo però che... quando egli riesce ad atterrare uke mantenendo questa prospettiva, sia esattamente in cui uno si migliori la vita, atterrando qualcun altro!
Solo che questo va completamente in contrasto con la noncuranza per il nostro compagno... che spesso ci assale quando sentiamo che la nostra azione è in parte inefficace: forzare la tecnica fa aderire alle varie aspettative, ma non garantisce automaticamente la cura e la protezione verso l'attaccante!
La concezione più diffusa di arte marziale - pure di Aikido - vuole che chi viene attaccato si difenda con efficacia, se poi l'attaccante rimane vivo o addirittura illeso è meglio... ma sovente si crede che ciò sia un requisito secondario.
Il primo sembrerebbe ancora quello di salvarsi la pellaccia, insomma: un nostro compagno di Dojo, di origini siciliane, ci ricorda spesso un detto: "Meglio in galera che al cimitero"...
Crediamo che questa diffusa posizione NON si addica alla prospettiva che Morihei Ueshiba ha voluto nella sua disciplina... e che la rende qualcosa di differente rispetto a qualsiasi altra pratica marziale tradizionale giapponese.
Salvarsi E dare supporto alla parte in ombra di se stessi NON sono due condizioni SCINDIBILI!
Atterrare qualcuno per soddisfare l'aspettativa di qualcun altro (poco importa chi esso sia) può renderci guerrieri temibili, ma in sé NON ci assicura alcuna forma di evoluzione personale: atterrare qualcuno avendone invece cura, significa avere compreso che egli è parte di NOI... quindi è un'attività che ci rende persone più consapevoli di sé... e quindi forse migliori.
Il contrario potrebbe rivelarsi solo una pericolosa deriva ed ingrassamento dell'ego: qualcosa di paradossalmente ed inutilmente competitivo in una disciplina che ha bandito in modo esplicito ogni forma di competizione con il prossimo, per concentrarsi SOLO su uno sviluppo personale ATTRAVERSO e GRAZIE al prossimo.
Forse in ciò risiede non rara sensazione di fallimento che si ha incontrando alcuni Aikidoka, che sembrano essere caratterialmente ed umanamente PEGGIORATI dopo decadi di pratica della nostra disciplina...
... vale la pena di farci una pensata su!
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