domenica 27 gennaio 2013
L’Aikimondo dei bambini ed il complesso ruolo del Maestro
Da qualche mese a questa parte ho avuto la possibilità… e l’immensa fortuna, di seguire un corso di Aikido interamente dedicato ai bambini più piccoli (5-9 anni).
Quest’esperienza si sta in realtà rivelando molto più istruttiva di quanto si possa pensare e frutto di innumerevoli riflessioni.
Poco tempo fa, avevo letto come "insegnare" significasse “mostrare che è possibile” mentre… "apprendere" volesse dire “renderlo realizzabile per se stessi”: nel rapporto fra il Maestro e i più piccoli questo emerge molto chiaramente.
Essi infatti non sono ancora del tutto consapevoli di quelle che sono le loro potenzialità ed è proprio compito del Sensei metterle in luce per farle affiorare.
Sono poi notevoli le responsabilità che quest’ultimo si assume nei loro confronti, poiché oltre a fornire continui e validi esempi, dovrà anche prendersi carico di funzioni pedagogiche e morali… giacché non va dimenticato che essi saranno futuri Aikidoka, ma prima di tutto saranno future “persone adulte”.
Sicuramente non spetterà al Maestro compiere i doveri propri dei genitori o degli educatori scolastici, ma perché non cominciare col fornire una figura salda ed equilibrata, cui potranno sempre far riferimento?
Tra le altre cose, ho potuto rendermi conto di come l’Aikido sia teso al rispetto e all’attenzione, ad un approccio quanto mai corretto con il prossimo, favorendo un rapporto di sincera parità.
In tal modo i "piccoli Samurai" si costituiranno un modello di comportamento da perseguire a scuola, come a casa… come in qualunque altro luogo in cui dovessero trovarsi in rapporto con un’altra persona.
Noi sappiamo del resto come l’Aikido si dovrebbe praticare in un Dojo, ma soprattutto fuori da esso.
Ho appreso anche come il gioco per loro sia davvero essenziale.
L’apprendimento si basa infatti sul desiderio d’imparare e non già su di un’imposizione.
Se si concede un momento di svago si noterà immediatamente come saranno maggiormente entusiasmati dagli stimoli del Maestro.
Il gioco può essere posto al termine dell’allenamento, come una sorta di ricompensa per l’impegno dimostrato od anche a metà lezione sotto forma di piccola pausa rigeneratrice.
Allo stesso tempo, però, è necessario anche gestire lo svago con moderazione per evitare che, nel caso in cui il gioco dovesse venir loro negato (magari per mancanza di tempo), non ne siano eccessivamente disturbati… o viceversa che - nel caso in cui venisse concesso in eccedenza - non si abituino ad un’atmosfera di gioco perenne.
I piccolini spesso non sono in grado di distinguere nettamente il momento del gioco da quello della serietà, è quindi nuovamente compito del Maestro segnarne saggiamente i confini, cosciente però anche di come talvolta lo svago stesso costituisca motivo d’apprendimento.
Va considerato poi che sarebbe bene rapportarsi con il bambino per mezzo dell’interesse immediato: è quanto mai importante svolgere attività ludiche, educative e differenti al tempo stesso, in modo che l’allievo venga continuamente spronato ad apprendere cose nuove con uno spirito attivo ed una passione crescente.
Inoltre è ormai nota la nostra propensione ad acquisire conoscenze da coloro verso i quali siamo ben disposti e di come malvolentieri prestiamo ascolto a persone dalle quali ci sentiamo intimoriti o sminuiti.
I ragazzini dovrebbero riconoscere nel proprio Maestro anzitutto una persona “di fiducia”, che sappiano essere comprensiva nei loro confronti la maggior parte delle volte, ma al tempo stesso inflessibile circa certe “norme” fondamentali.
Il compito del Sensei risulta perciò davvero complesso e variegato, poiché deve dimostrarsi serio o affabile a seconda delle differenti circostanze.
Poi, cercherà di non essere né troppo stretto né troppo largo nel lodare, poiché il primo atteggiamento potrebbe generare insicurezza e sconforto negli allievi, mentre il secondo potrebbe sfociare in un’eccessiva sicurezza con il conseguente insorgere del vanto e del biasimo nei confronti dei compagni di pratica.
Un altro aspetto che ho rilevato concerne la competizione.
Io, che frequento ancora i banchi di scuola, ho spesso a che fare con una competizione impregnata d’invidia e basata tutta sul confronto: per questo, secondo me, del tutto improduttiva.
Esiste però un altro tipo di competizione, svincolata dalla gelosia, che si basa invece sulla presa di coscienza di quelle che sono le doti possedute dall’altra persona (alcuni saranno sicuramente più bravi di noi in qualcosa e viceversa) e sul tentativo di migliorare in quelle sull’esempio dell’altro.
Se il Maestro fosse in grado di far sviluppare fin da subito nei bambini una competizione “positiva”, ecco che crescerebbero educati nel coglierne il lato buono e a farne motivo d’apprendimento e di crescita.
Il confronto di se stessi con gli altri non è di per sé nulla di male, ma noto purtroppo come la scuola molto spesso favorisca l’insorgere d’insicurezze proprio attraverso il confronto fra studenti.
Gli insegnanti, infatti, spesso spendono moltissimo tempo nel criticare gli allievi, ma raramente vedo impiegato lo stesso zelo nell’illustrare i motivi dell’insuccesso. Noto la tendenza d’essere davvero parsimoniosi nel momento dell’elogiare e così scarni quando invece si tratta d’incoraggiare chi non è riuscito a fare del suo meglio.
Non è poi molto diverso dal rimproverare continuamente un bambino senza motivare il perché del richiamo: se "ha sbagliato” in qualcosa… di certo è perché non aveva piena coscienza delle conseguenze della sua azione, o perché al momento non gli sarà stato facile fare diversamente.
Il risultato sarà che si sentirà rimproverato o punito ingiustamente e con molta probabilità ripeterà il medesimo errore più avanti.
È quanto mai importante, quindi, incoraggiarli e spronarli continuamente, ma soprattutto nel momento in cui si sentiranno maggiormente amareggiati e avranno perso la fiducia in se stessi.
Anche solo per mezzo di poche parole d’incitamento, sapranno che qualcuno crede in loro e cominceranno a credere in se stessi anche in prima persona.
Questa esperienza mi ha perciò fatto comprendere il complesso ruolo che svolge un Maestro, le difficoltà nelle quali deve spesso incorrere, soprattutto se tratta con i più piccini, e le responsabilità che si assume.
Per tutto questo tempo posso dire di averne avuto sotto gli occhi un ottimo esempio e di aver appreso molto circa il rapportarsi con i piccoli Aikidoka.
Sono giunta a considerare il Sensei come colui che conosce l’infanzia e sa rispettarla per quello che è e per quello di cui è fatta: i giochi, le gioie e le spensieratezze… ma anche le semplici regole, il continuo sperimentare e l’imparare.
Ho conosciuto un aspetto dell’Aikido del tutto nuovo, ma soprattutto ho sperimentato in prima persona il formarsi di un legame estremamente speciale con loro, un’empatia del tutto diversa da quella che potrebbe venirsi ad instaurare con un praticante del corso per adulti.
Per queste ragioni consiglio vivamente a tutti anche solo di provare a praticare con un bimbo, perché sarà lui stesso a farvi capire quanto per lui l’Aikido sia piacevole ed importante e vi renderà sicuramente partecipi della sua gioia, magari aggrappandosi alle vostre gambe come una scimmietta o cercando di acchiapparvi correndo per il tatami, come avviene nel mio caso.
Vi posso garantire che ne uscirete arricchiti e ringiovaniti nello spirito.
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