lunedì 8 giugno 2009

Stereotipi improbabili e Aiki-realtà imprevedibili 2


La settimana scorsa ci siamo lanciati nel vastissimo universo dei dubbi sulla reale efficacia di un atto marziale basato sulle nostre consapevolezze dell’Aikido, in caso di reale necessità di proteggere la propria incolumità fisica.

È un viaggio realmente vasto, e che incontra tutte le perplessità che moltissimi praticanti si sono posto o si porranno lungo il loro cammino di pratica. Alcuni cadranno in profonda crisi forse dopo l’essersi chiesti onestamente se ciò che stanno facendo li aiuterebbe in una situazione di pericolo inaspettata, soprattutto se dovessero scoprire che ciò che si apprende risultasse un po’ “disconnesso” dalla realtà…

Ma le crisi probabilmente non vengono a caso e l’esitazione in loro presenza potrebbe essere in sé un ulteriore passo del cammino marziale che stiamo compiendo.

La settimana scorsa abbiamo sollevato alcuni dubbi:

- cosa accadrebbe se imparassimo a controllare attacchi non realmente efficaci, oppure realmente efficaci, ma assolutamente fuori tempo rispetto a quelli che potremmo subire oggi nelle zone malfamate dei nostri quartieri residenziali;

- cosa accadrebbe se ci scoprissimo abili a ripetere efficacemente molte “forme” di tecnica, ma non avessimo poi quella di cui necessitiamo in caso di reale necessità.

La realtà è imprevedibile e il fatto che sappiamo cadere su un tatami non implica che cadremmo incolumi da una scala… molte sono le variabili che differiscono.
Sicuro però anche che potrebbe avere più probabilità di contenere il danno di una simile caduta chi è comunemente abituato a gestirne alcune altre, rispetto a chi si è allenato solo a guardare la TV in poltrona! (- nulla contro le teledipendenze, s’intenda! -)

Sono pensieri logici da farsi, soprattutto da parte di chi investe energia, tempo e soldi in un’attività costante come quella di frequentare un Dojo per allenarsi nell’Aikido (o anche in qualsiasi altra cosa, in realtà).

Non tenteremo in queste pagine di ipotizzare quale è la scuola di Aikido che più potrebbe agevolare lo “street fighting”, ma proveremo a fornire uno spunto di riflessione scaturito dalla nostra esperienza personale, che non vorrà essere per nulla l’ultima parola sull’argomento, ma piuttosto un invito ad esaminare la questione sotto un punto di vista spesso inedito e ricco di potenzialità, a nostro dire.

Ma bisogna fare un passo indietro: spesso quando si vuole risolvere una questione sul piano marziale, è necessario accettare momentaneamente un abbassamento di questa marzialità, che ci permetta di esaminare la stessa da un’ottica filosofica e forse più sensibile.

Se infatti ci chiediamo semplicemente se l’Aikido sia efficace o meno in caso reale, non se ne esce!

Se ci chiediamo se una scuola sia più buona di altre, confronteremo un personaggio di quella scuola, con le sue qualità specifiche (e che quindi, per definizione, non ci apparterranno mai del tutto), non la scuola stessa.
Se ci chiediamo se una tecnica sia efficace, staremo confrontando una situazione specifica in riferimento ad un contesto denso di infinite variabili che non si è in grado di valutare.

Funziona kotegaeshi?



Si, ci verrebbe da dire…

E se uno attacca così? E se ha un polso immenso? E se c’è il vento, per terra è bagnato, ho appena divorziato, perso il lavoro e mi è morto il pesce rosso?
In questo caso non sapremmo: forse verrebbe da consigliare Lourdes, anziché un Dojo!

Iniziamo a considerare il fatto che praticare le tecniche utilizzando il nostro corpo, è un processo molto utile innanzi tutto per comprendere come esso sia fatto, come funzioni e quali caratteristiche abbia.

Durante il tentativo di riprodurre quello che l’insegnante ci mostra, ci ingaggiamo nel fare mille connessioni tra le diverse parti di noi: il braccio destro con quello sinistro, il ginocchio con la spalla, l’aspetto mentale e quello fisico… pensiamo e agiamo, poi ci rendiamo conto che non abbiamo agito in conformità a quello che avevamo ipotizzato, ed aggiustiamo il tiro con la prossima ripetizione.

Ci sorprendiamo a non essere attenti osservatori ed a non riuscire sempre a copiare fedelmente quello che ci viene proposto, quindi abbiamo una reale opportunità di acuire la nostra attenzione e migliorare in questo aspetto specifico.

Ci stiamo allenando soprattutto ad essere più consci di noi stessi, rispetto a quanto ci appartiene e caratterizza, e rispetto all’ambiente che ci circonda.
Poco importa ora la scuola che seguiamo, questo avviene comunque sempre durante l’allenamento: stiamo imparando il solfeggio del nostro “strumento”, lo stiamo accordando e preparando a suonare le prime timide canzoni.

A questo livello non siamo marziali forse, ma stiamo sicuramente lavorando.

Nel ripetere numerose tecniche poi, si arriva ad un certo punto in cui avviene un fenomeno strano, paradossale potremmo dire: l’allenamento che prima poteva apparirci composto da numerose parti incontestabilmente diverse e indipendenti, risulta ad un altro livello, composto da altrettante numerose “scatole” riempite da un contenuto simile o perlomeno analogo.

Le tecniche così diventano veri e propri contenitori di un aspetto più profondo, che chiameremo “principio”. Mentre quindi un neofita compie i suoi primi sforzi mnemonici per realizzare Ikkyo (dove mettere i piedi, dove dirigere lo sguardo, come mantenere l’equilibrio…), un Aikidoka esperto riconoscerà sicuramente il principio di Ikkyo che sta dietro a ciò che sta mostrando il suo insegnante.

Poco importerebbe addirittura se lo si vedesse realizzare in un modo diverso da quello che si è soliti realizzare nel proprio Dojo (nei seminari, ad esempio)…

Il principio di Ikkyo continuerà ad essere il principio di Ikkyo su tutto il pianeta, almeno fra gli esseri che hanno due gambe e due braccia!

In questo caso il lavoro non è sulla costruzione di una nuova scatola, ma sul rinforzo di ciò che esse contengono, il “principio delle tecniche” cioè.

Ogni tecnica prevede che il partner venga sbilanciato: kuzushi (ossia lo sbilanciamento) è il principio, mentre le fasi operative che seguono sono esclusivamente il mezzo attraverso il quale esso prende vita.

In questo caso le tecniche divengono uno strumento, non un fine. Sapere moltissime forme amplia il proprio bagaglio tecnico, ma considerarle le une indipendenti dalle altre è segno che si sta lavorando sui recipienti, non sul loro contenuto.

Se invece ci si focalizza sui principi, non è assolutamente importante conoscere molti vestiti da calzare per le varie situazioni di attacco, poiché i principi possono essere utilizzati indipendentemente dal contesto: potremmo dire che sono “universali”, svolgono cioè la funzione di chiavi di interpretazione del contesto, anche se esso fosse inedito.

Questo, crediamo, sia il motivo di alcune delle parole lasciateci da O’ Sensei:

あるとあれ
太刀習って
何かせん
唯一筋に
思い斬るべし

“Aru to are
tachi narrate
nanika sen
tada hitosuji ni
omoi kiru beshi”

"Questo o quel colpo,
o tecniche di spada
per farne cosa?
Un colpo solo
e va dritto al cuore delle cose.”
[Doka 74, Morihei Ueshiba]

Il “sapere” dell’Aikido, quindi, potrebbe non essere da intendersi in senso enciclopedico (cioè, molte voci, per ciascuna situazione), ma essere stato pensato per creare una sorta di atmosfera olistica, nella quale ogni aspetto è legato e interdipendente da tutto il resto, in modo tale che non ci possano essere vere e proprie situazioni inedite, ma solo possibilità risonanti fra loro.

In questo senso non sarà maggiormente pronto alla realtà chi conosce 1000 tecniche di Aikido, ma chi, grazie ad esse, si sarà meglio integrato con la realtà stessa.
Il salto di consapevolezza non è immediato, ma è notevole!

L’Aiki-armadio, come si era chiamato nello scorso Post, sarà utile per impararsi a vestire e svestire rapidamente di una forma, consci che la sostanza… il principio, cioè, rimane stabile e radicato, solo cambia la configurazione con la quale si manifesta nella situazione specifica.

Da questo punto di vista si comprende meglio l’esempio fatto poc’anzi: forse chi cade da una scala non avrà la certezza di rimanere illeso, ma l’essere abituati a cadere sul tatami aumenta queste possibilità.

Forse chi viene aggredito per la strada non ha la certezza di saper affrontare al meglio la situazione, ma è certo che se ha svolto un buon lavoro di conoscenza ed integrazione su di sé e padroneggia i principi dell’Aikido indipendentemente dalle forme in cui si manifestano… ha qualche probabilità in più di uno sprovveduto!

In realtà poi, ciò che abbiamo fino ad ora espresso non è appannaggio esclusivo dell’Aikido, ma di qualsiasi Arte Marziale tradizionale: un Karateka o un Judoka potrebbero rimandare pensieri analoghi dalla propria esperienza.

Ma quale aspetto è specifico dell’Aikido?
Non c’è dubbio, la sua filosofia “non-dualistica”!

Ci dimentichiamo infatti che nell’interrogativo “ce la potrei fare con ciò che ho imparato ad affrontare il borseggiatore nel parcheggio?” è profondamente radicata una mentalità dualistica che è completamente estranea alla summa del pensiero di O’ Sensei!

Dietro a questa domanda c’è l’ipotesi che chi la pone rappresenti in qualche modo “l’innocente”, il buono della situazione, che si reca in un luogo in cui improvvisamente e spietatamente “il malvagio ed astuto” aggressore cerca di usare violenza con il malcapitato.
Se esso avrà fatto centinaia di kotegaeshi avrà qualche speranza in più di non perire, ma certamente in una simile situazione chiunque avrebbe voluto avere il tempo di farne migliaia, per sentirsi più preparato.

È tutto sbagliato, a nostro dire!

O’ Sensei affermava “io ed il mio avversario siamo uno”, "io e l’Universo siamo uno”… se l’avversario tentasse di aggredirmi, dovrebbe quindi vedersela con l’intero Universo.

Ma prima di questo pensiero c’era forse l’amore… l’amore per tutti e per tutto, pesino per chi tenta di aggredire con la violenza.

Se si riuscisse ad avvolgere questo “brigante” con la propria compassione - letteralmente “passione simile” - non rifiutandolo, non considerandolo cioè qualcuno da abbattere per non essere abbattuti… qualcuno che non è sacrificabile per salvarsi la propria pelle, siamo certi che egli avrebbe ancora tutta la sua spocchia e sicurezza?

Molto probabile che possa restare semplicemente spiazzato: “lo sto aggredendo per ferirlo e questi mi accoglie?...O è pazzo o sto impazzendo io”. Potrebbe essere questo un pensiero verosimile.

In questo il suo vacillare interno di intenzione, in questo la sua auto-sconfitta nei confronti della semplice e sempre presente armonia dell’Universo che egli contatterebbe.

In Aikido gli avversari si dovrebbero auto-sconfiggere, non venire sconfitti per quello che gli facciamo noi. Il binomio “attaccante” e “attaccato” dovrebbe cedere il posto al monomio “attaccante-attaccato”, costituenti una solo nuova ed inedita realtà.

L’Aikidoka dovrebbe essere grato al suo aggressore poiché egli è la fonte del dono di energia (aggressiva, ma pur sempre energia), attraverso la quale è concesso a Nage di manifestare il suo Aikido, Takemusu Aiki, ossia la sorgente dalla quale il principio, e quindi la tecnica, scaturiscono spontaneamente… non perché si prova a replicare quello che si è fatto centinaia di volte al Dojo.

C’è uno spirito di abbandono nelle parole scritte sopra, una sorta di fiducia nell’armonia intrinseca delle cose, una volontà di non volere tenere sotto controllo ogni situazione.

Se ci interroghiamo sulla nostra efficacia marziale, in fondo, è segno che vediamo ancora le cose sotto un’ottica dualistica ("noi" + "il bruto da sedare"), e ci chiediamo se sarebbe possibile piegare eventualmente a nostro favore un evento pericoloso e malaugurato come quello di un’aggressione.

Ma perché dovremmo avere quest’ansia? Perché questa mancanza di fiducia sulla nostra capacità di improvvisare qualcosa di rispettoso di noi e del prossimo?

L’Aikido dovrebbe insegnarci questo: ad essere più liberi, non cioè “schiavi” del nostro miglioramento, per la preoccupazione di doverlo rendere operativo quando meno ce lo aspettiamo!

Questo è solo un punto di vista, si intende… ma ci pare molto conforme al pensiero del Fondatore stesso.
Infatti, quale aggressore (solitamente dotato di ottimo istinto di sopravvivenza, se abituato ad utilizzare la violenza nel quotidiano) si avventurerà a molestare chi è serenamente pronto in qualsiasi istante a mettersi completamente in gioco per salvaguardare l’incolumità di sé e del brigante stesso… chi sarà così pazzo da prendere una nasata contro l’intero Universo?!

In psicologia solitamente si postula che chi aggredisce, lo faccia per due distinte ragioni:
- per farla franca, godersi il bottino e prepararsi ad aggredire di nuovo;
- per essere fermato da qualcun altro, poiché lui non riesce a farlo da solo imponendosi su di sé.

Nella filosofia del Fondatore, invece, indipendentemente dalle ragioni che lo possono muovere a livello conscio ed inconscio, è chiaro che l’aggressore si ponga con il proprio agire in direzione opposta all’ordine naturale delle cose. Può quindi solo incontrare persone che non lo sanno e che gli permettono di continuare a perpetrare il suo auto-omicidio, oppure incontrare qualcuno che ne è conscio e che lo possa aiutare - ripetiamo il termine - AIUTARE a fermare la sua follia.

In quest’ultimo caso l’aggressore non può che essere grato a colui che favorisce il termine di tanto spreco di energia, opportunità e vita.

Il compito dell’Aikidoka non è quindi quello di “castigamatti”, sui quali provare l’efficienza di ciò che ha imparato, ma piuttosto quello di cercare questo equilibrio tra le cose che esistono e non avere eventualmente timore di condividere le sue scoperte con chi incontra sulla sua strada.

Il confronto marziale non dovrebbe neppure esistere nei suoi pensieri, e forse, proprio per questo egli potrebbe divenire agli occhi del mondo incredibilmente e marzialmente efficace.

Un Aikidoka che si trova aggredito nel parcheggio auto e che pensa a quale tecnica lo potrebbe salvare, a nostro dire, è semplicemente un Aikidoka che ha già sbagliato qualcosa.

Egli dovrebbe essere conscio di sé, del parcheggio… egli stesso dovrebbe “essere il parcheggio” e tutti gli individui che contiene, siano essi innocue vecchiette, siano pericolosi rapinatori Ninja!

Più che chiederci se l’Aikido sia efficacemente marziale o meno, forse faremmo meglio a capire se intendiamo realmente aderire alla sua profonda filosofia di vita, la quale ci esorta a non considerare il mondo in cui viviamo come un pericolo costante che trama dietro alle nostre spalle e dal quale quindi dobbiamo difenderci.

Giungiamo così al paradosso che è possibile imparare la marzialità nel Dojo per poter quindi apprendere come farne a meno nei nostri pensieri ed azioni… e così facendo diveniamo autenticamente marziali nei confronti di chi non compie questo processo.

Da questo specifico punto di vista, ci piace pensare all’Aikido come all’Arte Marziale più efficace che ci sia, poiché insegna a gestire le continue aggressioni e sabotaggi che avvengono in noi stessi, e quindi a sventarne di nuovi nell’ambiente che ci circonda.

Ci piace pensare che l’Aikido sia efficace in quanto in grado di percepire e toccare la guerra prima che si scateni al fine di trasformarla in pace.

Post complesso, ce ne rendiamo conto: fateci sapere il vostro pensiero, noi volentieri abbiamo condiviso il nostro.

Concludiamo girando ad O’ Sensei la domanda sull’efficacia marziale della sua creatura per immaginarci che cosa avrebbe risposto…

惟神
合氣の技を
きわむれば
如何なる敵も
襲うすべなし

"Kannagara
aiki no waza o
kiwamureba
ikanarunaru teki mo
osou sube nashi”

"Se padroneggi
i principi dell’Aikido
nessun nemico mai
si vorrà arrischiare a sfidarti sul campo” [Doka 99, Morihei Ueshiba]

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