lunedì 28 ottobre 2024

Quando muore un Aikidoka: un lutto complesso da vivere

Quando si fa parte di un gruppo o di un movimento si è inseriti in un contesto sociale, non importa quando ampio... e come tale è naturale che in esso PRIMA o POI qualcuno venga a mancare.

Se siamo le persone che compiono il trapasso, tanto quanto dovremmo essere privilegiati e supportati nell'avere praticato una disciplina marziale, nella quale l'incontro con la morte (almeno fino a questo momento in modo figurato) dovrebbe essere all'ordine del giorno, o almeno del keiko.

Ma se siamo gli altri, quelli che restano?

Più la pratica sul tatami si allunga e più sarà facile incorrere nell'esperienza che qualche nostro compagno ci lasci per sempre, talvolta dando un congruo preavviso, e dandoci la possibilità in qualche modo di prepararci (come nel caso di una malattia più o meno degenerativa), talvolta invece all'improvviso (come accade negli incidenti o, peggio ancora, nei suicidi).

E, siccome la morte dalle nostre parti è ancora un gran tabù, veniamo colti alla sprovvista, sia se siamo dei compagni di pratica, sia se siamo gli Insegnanti, che devono farsi carico delle dinamiche umane del gruppo del quale sono membri o addirittura i responsabili.

Fin da ora è importante dividere questa difficoltà in 2 aspetti molto differenti fra loro:

- il bene sincero che vogliamo a chi se ne va ed il dispiacere - tutto umano - di non poterlo più incontrare, ed interagire; il vuoto che sentiamo nella nostra vita lasciato da chi non c'è più;

- la proiezione di noi che facciamo sull'evento funebre; la paura che noi stessi abbiamo di affrontare un momento che sappiamo prima o poi arriverà, ma che è fuori dal nostro controllo sapere come e quando.

É fondamentale, secondo me, scindere il problema (almeno) in questi 2 ambiti, perché essi tenderanno a mischiarsi ed aggrovigliarsi nel momento in cui viene a mancare un nostro compagno di pratica.

Tutti i contesti che prevedono un forte impatto emotivo sono capaci di farci provare sia il paradiso, che l'inferno qui in terra: pensiamo a quanto siamo al 7º cielo quando ci innamoriamo... così come quanto può essere forte il senso di colpa di avere maltrattato il nostro compagno che non c'è più l'ultima volta che lo abbiamo incontrato, senza avere ora la possibilità di chiedergli scusa, di rimediare in qualche modo.

Il primo aspetto lo possiamo mitigare considerando nel modo migliore le persone FINO A CHE CI SONO, sapendo bene che non abbiamo la possibilità di determinare quando finiremo di frequentarle. Provare dolore per la scomparsa di un amico è poi naturale, ma possiamo anche celebrare l'importanza della sua presenza quando c'è... senza rimandare ad accorgerci di tutto ciò solo quando questa viene a mancare.

Altrimenti diamo gli altri "per scontati" e ci accorgiamo che non lo sono affatto SOLO quando scompaiono dalle nostre vite.

Se ci abituiamo a questo paradigma saremo profondamente incoerenti, poiché incapaci di vivere appieno il momento presente... salvo poi disperarci (inutilmente) di tutti gli attimi di vita persi insieme, solo quando non è più possibile viverli.

Io secondo aspetto invece è mitigabile smettendola di rilegare la morte a qualcosa di poco plausibile, e - soprattutto - che accade sempre e solo a gli altri. Da un lato vogliamo allontanare da noi il pensiero di quando ci toccherà fare questo passaggio e non potremo mandare un nostro sostituto... dall'altro tutto ciò che evitiamo di affrontare tendiamo a specchiarlo negli altri.

Quindi NON ci dispiacerà SOLO perché il nostro compagno se n'è andato... ma soffriremo anche perché gli eventi tipo quelli che sono accaduti a lui ci fanno una paura FOTTUTA!

Conosco persone che non riescono nemmeno a nominare la morte, e si rifiutano anche solo di pensare all'idea della propria o altrui: ma la vita è GIUSTA ed impassibile di fronte a questi meccanismi di rimozione ossessivo-compulsivi... e di solito continua a metterci di fronte proprio a ciò che temiamo di più.

La separazione, così come l'unione... sono la madre ed il padre di tutti gli archetipi: in Aikido li utilizziamo in continuazione;

- uke ci attacca e da separato è costretto a toccarci, quindi ad unirsi a noi;

- possiamo diventare uno con lui e quindi separarci nuovamente, nel nage waza;

(oppure)

- possiamo diventare uno con lui e poi rimanere in questa condizione, nel katame waza;

La condizione di riunificazione viene prima di tutto, ma il nage waza è considerato meno basilare del katame waza... forse proprio perché riprendere distanza dall'altro è più complicato di quanto non s'immagini... specie quando siamo stati molto bene INSIEME.

In un certo senso, ed in una prospettiva più alta, essere separati sappiamo dentro a noi essere "innaturale"... essendo parte di un tutto armonico, che include noi ed il prossimo.

La sensazione - tutta e solo umana - che l'altro "vada via", "non ci sia più" non è solo errata, ma anche solo momentanea... poiché la viviamo SOLO fino a quando siamo inseriti in un contesto spazio-temporale. Però è proprio in questo contesto che siamo ORA!

La nostra anima o il nostro sé superiore sa benissimo che tutto ciò è mera apparenza, ma è necessario esperire tutto ciò a livello personale, non convincersene perché lo dico io o lo afferma qualcun altro.

E siccome scarseggiano individui in grado di percepire la propria immortalità in modo conscio, allora ci attacchiamo a tutto: agli altri, alla religione... a qualsiasi cosa ci faccia sentire meno soli e meno in pericolo in questi contesti di "frontiera". In una sola parola "reagiamo"... nonostante essere praticanti di una disciplina che va oltre il concetto dualistico di azione e reazione.

Questi impasse quindi colgono il 99% delle persone, praticamente mai pronte alla dipartita né propria, né altrui.

Accade anche che queste persone in difficoltà siano proprio gli Insegnanti di Aikido, ai quali non viene chiesto di studiare tanatologia o di fare un corso di preparazione alla dipartita durante il proprio apprendistato da docente. Di solito ci accontentiamo che non facciano ikkyo in modo troppo becero, per osare lanciarci in tematiche così "fuori dalla comune portata".

E qui sbagliamo di brutto!

Perché un Insegnate di Aikido - a mio dire ovviamente - dovrebbe prepararsi ad un evento come questo... che gli toccherà COMUNQUE vivere, se ha intenzione di frequentare per un tot di anni il tatami. Lo sanno bene tutti i docenti che hanno accomunato una certa esperienza: prima o poi accadrà che qualcuno del gruppo ci lasci. Allora cosa dire agli altri?

Come affrontare una tematica così delicata ed importante insieme al proprio gruppo?

Credete che basterà fare finta di niente?

Per un malore improvviso, ci sono persone che sono decedute propio al Dojo, per esempio... e se non si è capaci di affrontare al meglio l'evento (o non ci si fa aiutare da chi lo è) rischiamo che rimanga una ferita indelebile nei trascorsi di tutti coloro che erano presenti (e pure di quelli che fisicamente magari non erano li, ma che appartengono a quel gruppo).

Ci potrebbero essere persone che smettono di praticare per non vivere continuamente il ricordo di chi è scomparso, altri che smettono perché non vogliono frequentare un luogo nel quale hanno preso contatto con un aspetto della vita che fanno fatica ad affrontare in modo maturo e sereno.

É quindi MOLTO importante COME si pone un Insegnante in questi casi, e ve lo assicuro per pura esperienza personale. La capacità di offrire una chiave di lettura positiva ed integrante per chi resta credo sia fondamentale. Ma come fare, se il Maestro si rivela fra chi cade nel propio baratro...

Il "lasciare andare" che chiediamo a noi stessi in una buona ukemi è parente dello smettere di tenere tutto sotto controllo, compresa le durate delle vite (propria ed) altrui. L'accettazione dell'ignoto è tutto ciò che viviamo in un randori... perché così tanta fatica a vivere gli stessi principi, quando essi ci toccano in altri ambiti?

Paolo di Tarso ("San Paolo" per gli amici) afferma che Cristo, nella sua seconda venuta, metterà "tutti i nemici sotto i suoi piedi" (25) e, "come ultimo nemico, sconfiggerà infine anche la morte" (26). Ecco: non vorrei apparire un tantino blasfemo... ma non credo proprio che andrà così, o almeno non ho il tempo per attendere e verificare come andrà. Anche perché molti di noi devono fare pace con questo processo ORA, e non se o quando qualcuno verrà a toglierci le castagne dal fuoco.

La morte per me NON è nemmeno un nemico, a dirla tutta, ma una delle componenti ESSENZIALI della vita stessa... elemento che le conferisce senso, valore e significato... e della quale NON rappresenta per nulla il contrario (il contrario di "morte" è "nascita", infatti): essere in grado di armonizzarsi con la morte, quindi, a me suona come necessario per vivere una vita piena e gioiosa.

Attribuiamo un sacco di limiti e brutture alla morte SOLO perché il nostro corpo si disfa, perché in questa dimensione spazio-temporale perdiamo la capacità di comunicare con chi non è più fisicamente accanto a noi, perché ci appare come una soglia oltre la quale c'è un ignoto silenzioso... e che come tale ci spaventa. Ma pratichiamo per affrontare le nostre paure o per nasconderle sotto il tappeto, nella speranza di non accorgersi di averle?

Veramente crediamo che non esista tutto ciò che non siamo (ancora) in grado di percepire?

Allora, non solo la vita deve necessariamente finire con la morte, ma non esistono nemmeno gli SMS, le e-mail ed un sacco di frequenze elettromagnetiche e sonore... che siamo incapaci di rilevare senza devices (telefono, computer o dispositivi) specificamente crearti per mostrarci ciò che sarebbe celato ai nostri sensi ordinari.

Ho sempre vissuto male l'ipotesi di un ipotetico dio che ci obbliga ad iniziare il nostro viaggio con una festa, nella quale tutti sorridono e ci augurano il meglio... ed a terminarlo con un momento di tristezza generale, nel quale tutti si disperano per la nostra scomparsa: ci deve essere evidentemente qualcosa che non abbiamo colto - collettivamente parlando - dell'esperienza terrena della vita!

In generale, sono uno che si lascia il boccone più buono per la fine... che vuole terminare col botto, non di certo in modo addolorato.

Forse parlo così perché ho la fortuna (non è solo fortuna, è più forse una semplice abitudine) di guardarmi dentro da un tot di anni, ed andare a cercare risposte importanti nell'unico luogo nel quale - spesso - non hanno nemmeno più senso certe domande.

Però credo che un Insegnante di Aikido dovrebbe stimolare questo nei propri allievi: non "indottrinarli" con la propria religione preferita, ma spronarli a fare le LORO esperienze personali dirette ed immediate (non-mediate)... incoraggiandoli a farsi anche le domande più scomode e non mettere la testa sotto la sabbia quando incontrano qualcosa che fa loro timore o genera sofferenza. Sono convinto che questo sia parte imprescindibile della pratica.

Allora non stapperemo di certo bottiglie di champagne quando qualcuno del Dojo verrà a mancare, ma almeno sapremo vivere quel momento delicato e denso come qualcosa di costruttivo ed utile, per noi e per la community alla quale apparteniamo. Un ottimo modo direi di onorare la memoria di chi non c'è più!

Ci sarà di sicuro un tempo per le lacrime, sarebbe fuorviante pensare il contrario, perché il dolore della separazione ci sarà COMUNQUE, però ci sarà anche una nuova "fragranza" nel cuore, sentendo i nostri compagni riunirsi a quell'essenza di cui anche noi facciamo parte... sebbene ci si possa sentire abbastanza esuli in questo tirocinio intensivo sul pianeta Terra, immemori pure di averlo scelto.

Marco Rubatto


PS: Andrea, Giancarlo, Alan... grazie di tutto, vi vogliamo BENE!




  


1 commento:

Edoardo Casetta ha detto...

Di recente ho vissuto l'esperienza della perdita di un mio amico, e ho scoperto che il dolore che proo è in realtà frutto di due componenti: il vuoto lasciato dalla scomparsa di questa persona da una parte, e la paura che l'avvenimento vissuto si possa ripetere infinite volte senza possibilità che io ne abbia il controllo. Però penso che questi due aspetti, uno legato alla persona che non è più qui, è l'altro più egoistico, siano legati da una domanda di senso che si muove tra un doloroso fatto del passato e l'incompetenza ripetizione di questo fatto nel futuro.