lunedì 22 maggio 2023

Aikido ed il paradosso dell'uke oppositivo

Quanto dovrebbe essere oppositivo uke durante la pratica?

Quanto dovrebbe farci sudare la realizzazione della tecnica che vorremmo creare grazie al suo attacco?

... Un tema molto crucciale nei circuito dell'Aikido (e anche oltre)... poiché un uke eccessivamente compiacente rischia di fare danno esattamente come potrebbe farlo se si mostrasse troppo oppositivo... ma a proposito esistono numerose (e divergenti) scuole di pensiero.

Essendo la nostra disciplina di chiara matrice marziale, si suppone che le azioni siano ambientate in un contesto conflittuale... ovvero nel quale chi attacca non è li per cadere, a meno che venga costretto a farlo, o che scelga di farlo per non ferirsi.

Al contrario, un attaccante che si auto-abbatte non permette uno studio serio al proprio partner di pratica, che magari potrebbe sentirsi pure per qualche istante Kenshiro... ma risulterebbe solo l'eroe di una pantomima fake.

Ovvio quindi che una qualche forma di resistenza da parte di uke dona senso all'azione del proprio tori... ma quanta?

Dalla Scuola dalla quale provengo, uke deve sempre tenere più stretto possibile, deve piazzarsi bene a terra e non deve muoversi di un millimetro... a meno che non sia tori ad indurlo al movimento, sbilanciandolo e vincendo le sue resistenza con un buon angolo ed un buon timing.

In questa accezione, più uke si mostra oppositivo... maggiormente deve essere abile tori a performare la tecnica: per fare questo si utilizza tantissimo l'allenamento statico, poiché è noto a tutti dalla fisica delle medie che mettere in movimento un corpo fermo richiede di superare la sua forza di inerzia iniziale.

Più semplice risulta sbilanciare una persona che è già lanciata in un attacco, e di conseguenza ha essa stessa un equilibrio meno stabile.

Nell'Iwama Ryu quindi si privilegia per anni un kihon statico proprio per evitare che l'attacco sia scialbo e quindi perda di valore la nostra azione: ci sta, ma cosa accade poi realmente in pratica?

Ve lo racconto, pure di primo pelo, perché l'ho vissuto sulla mia pelle per anni.

Una tendenza nata nella pratica con una certa utilità, può diventare mostruosa ed inutile se mandata ai suoi estremi.

Ad esempio l'ultima volta che sono stato ad Iwama, era chiaro come le prese che ricevevo non si prefiggessero solo il compito di avere un attacco serio... ma di impedirmi di fare ciò che il Sensei stesso mi stava chiedendo di fare. Mi spiego meglio.

Tenere forte è un conto... ma tenere forte e tirare nel senso opposto a quello in cui la mia mano avrebbe dovuto andare è un mero atto di sabotaggio: uke, che sapeva bene cosa avrei dovuto fare (perché lo aveva visto dal Sensei) cercava di remarmi contro in ogni stante della tecnica, irrigidendosi, andando nella direzione opposta a quella che avrei dovuto percorrete, etc.

Era "ganzo" ci riusciva a portare a termine l'azione NONOSTANTE uke avesse fatto di tutto per impedirlo.

L'allenamento risultava quindi particolarmente inutile: ogni tecnica una sorta di panca piana, nella quale usare la mia forza contro uke, che utilizzava la sua forza muscolare contro la mia... in quello che ho molte volte chiamato "braccio di ferro waza". Così l'opposizione risultava abbastanza inutile, poiché non mirava a far crescere il proprio tori, quanto a svalutarlo con un atteggiamento passivo-aggressivo.

Bisogna infatti notare che l'attacco è sempre un dare energia, un fornire un impulso che entra in tori... non limitarsi ad annullarne ogni movimento con un'azione uguale e contraria: se mi attaccassero così per la strada... attenderei che si stanchino!

C'è un altro simpatico baco nel dare sempre più opposizione possibile da parte di uke: i neofiti.

Ovvio che, se uno ha appena iniziato la pratica, qualsiasi espero è in grado di opporsi in modo tale da non fargli venire più nulla, da stoppargli qualsiasi tentativo di liberarsi sin dal principio: ma, nuovamente, sarebbe utile un atteggiamento simile?

Farebbe progredire il neofita o lo demotiverebbe inutilmente?

Nell'Iwama Ryu questo atteggiamento è stato molte volte usato per sancire chi fosse il maschio-alfa sul tatami: "quello che riesce a fare le tecniche con tutti gli uke, mentre nessuno riesce a fare le tecniche con lui quando tocca a lui essere uke".

Pisellismo... insomma: poi alcuni corsi si chiedono come mai non sono frequentati da donne e ragazze. Ovvio che non lo siano: il gentil sesso non è per nulla interessato ai giochi di compagni che utilizzano la pratica per misurarsi l'ammennicolo con una certa frequenza.

Quindi ostruzione si... ma fino ad un certo punto, oltre il quale diventa addirittura controproducente.

Ora esaminiamo la posizione diametralmente opposta, ovvero quella nella quale uke segue, sempre e comunque.

In questo caso di buono c'è che si apprende la non-resistenza, il jutai, che sembra essere un elemento piuttosto importante per il corpo e per la mente di un praticante di arti marziali.

Il problema però è che un attacco privo di ogni forma di resistenza, poiché da un impulso e poi si lascia trascinare ovunque questo lo condurrà... sa di attacco magari omicida, ma suicida un secondo più tardi.

L'avversario che si auto-abbatte - lo abbiamo detto qualche riga sopra - offre poca (se non nulla) possibilità a chi lo riceve di migliorarsi... perché è proprio indipendente da qualsiasi cosa faccia tori.

Risulta una recita, con ruoli prefissati... nella quale uno fa finta di attaccare e l'altro di difendersi, ma dove non c'è nulla di tutto ciò, perché l'attacco stesso non ha i presupposti di un attacco nemmeno lontanamente reale. In questo caso la scenetta può anche riuscire bene e risultare particolarmente armonica e spettacolare... ma è stato estromesso di netto il conflitto, che invece era proprio la caratteristica preminente del contesto dell'allenamento.

Molte Scuole - in modo più o meno consapevole - agiscono secondo questo copione almeno parzialmente fake: di solito si tratta di tutti coloro che non praticano raramente un allenamento di tipo statico (come accade l'Aikikai Honbu Dojo) o che si dedicano al cosiddetto "soft touch" (ad esempio coloro che seguono Endo Sensei, per fare un nome molto noto).

In realtà ci sono cose mirabili che si possono apprendere in queste Scuole, come la rilassatezza, il senso del timing (che appunto migliora più siamo rilassati), del ritmo della pratica, etc... Non si tratta quindi di contesti "fake", ma di luoghi nei quali uke diventa un po' "il giocattolo di tori", il quale lo "addestra" a fare un po' ciò che questi ritiene più produttivo per lui.

Buono, produttivo ed utile per certi aspetti... se non fosse il fatto che in un conflitto è tori che deve imparare ad armonizzarsi al proprio attaccante, e non il contrario. Questo tipo di pratica quindi è importante, ma rischia - ad un certo punto - di pervertire il significato stesso di arte marziale.

Esiste però una terza via, forse la più interessante a mio avviso... ma anche quella che necessita di esperienza maggiore da parte di tutti i praticanti, indipendentemente dal ruolo che ricoprono: quella del kaeshi waza, ovvero della "contro-tecnica".

In questo contesto, il mandato di uke è quello di fare un attacco credibile... ma non solo UNO.

Durante lo svolgimento dell'azione, egli può divincolarsi e riattaccare o tentare di applicare una contro-tecnica ogni qualvolta che ciò gli risultasse possibile: in questo modo tori sa di avere fra le mani una bomba inesplosa... che può ferirlo anche DOPO che il suo primo attacco è stato reso inoffensivo.

Sfortunatamente, questo livello della pratica richiede sia a tori, che ad uke di avere già sviluppato alcune capacità non esattamente basilari: una certa precisione tecnica, ma anche una sensibilità acuta ed un buon senso del timing... oltre alla chiara intuizione di quando ha senso continuare con la propria azione, o quando è bene invece desistere.

Il livello kaeshi waza infatti tende ad alimentare una certa dose di competizione fra i praticanti, che può risultare dannosa, se non addirittura pericolosa: tori vuole chiudere la tecnica a tutti i costi perché il compagno non possa più ribellarsi ad essa (di solito facendo un più massiccio utilizzo della forza muscolare), mentre uke tende a non accettare mai del tutto che per lui sia finito il tempo di attaccare e che gli convenga quindi cedere per non farsi male.

Entrambe le situazioni rischiano di essere estremizzate e quindi diventare pericolose per l'integrità dei praticanti. Più di una persona con la quale ho parlato mi riferiva, ad esempio, che Hosokawa Sensei smise di insegnare e far praticare kaeshi waza proprio per questa ragione.

Però non è detto che sia impossibile utilizzare bene uno strumento, solo perché è facile che esso sia usato male.

Il kaeshi waza, infatti, è un'ottima risposta a quanta resistenza debba fare un uke: richiede quest'ultimo sia ingaggiato al proprio mandato ben oltre l'attacco iniziale, ma per tutta la durata dell'azione.

Ogni volta che uke scorge un angolo libero o un istante di scopertura del compagno glielo fa notare con un ulteriore attacco: certo, è facilissimo per tori offendersi, prendere la cosa sul personale e preferire un "uke addomesticato" a dovere... ma se accetta che gli vengano rimandati i suoi punti lacunosi nella pratica di certo potrà crescere molto velocemente.

Quando ciò accade può non essere piacevole, ma risulta sicuramente utile per chi veramente è interessato allo studio di se stesso sotto stress!

Per la cronaca, la tradizione insegna che la pratica del kaeshi waza è essa stessa un katageiko, ovvero un allenamento pre-ordinato: si lascia volutamente un "buco" nella propria tecnica, così che uke impari ad avvertirlo e ad approfittarne per fare una contro-tecnica.

Questo però non è che l'inizio dello studio del kaeshi waza in realtà: se questo viene affidato solo ad una situazione pre-ordinata si rischia infatti di sfociare in un nuovo teatrino fake, ovvero nel quale tutti sanno già cosa fare, quando e come farlo.

Il kaeshi waza reale è un'altra cosa... ovvero deve avvenire all'improvviso, quando meno uno se lo aspetterebbe, senza che ci sia stato alcun accordo precedente fra i praticanti.

Ma anche in questo tipo di pratica e pur se non viene incentivata alcuna forma di competizione, esistono delle zone d'ombra dalle quali è bene tenersi alla larga: ad esempio deve essere chiaro per uke come la possibilità di kaeshi waza deve essere impiegata SOLO per fare notare al proprio compagno una sua apertura della quale non è consapevole... e che ciò è da fare in questo modo SOLO se presumiamo che questi sia in grado di cogliere il messaggio positivo che può trarne per la propria pratica.

In altre parole NON serve a nulla fare kaeshi waza per mostrare che siamo maschi alfa, in alternativa ad opporre una resistenza in grado di "schiacciare" fisicamente ed emotivamente il proprio compagno. Risulterebbero infatti due modalità diverse di fare la stessa cosa... peraltro inutile per entrambe i praticanti.

Ci sono anche momenti nei quali opporre una resistenza attiva o passiva è più sensato che in altri.

Nella pratica ordinaria one-to-one - ad esempio - può avere un senso... nel bel mezzo di un randori durante un esame non saprei se ne avrebbe altrettanto... Ha senso se si pratica con Aikidoka che hanno avuto modo di maturare un certo livello di padronanza di sé e di ciò che accade intorno a loro; può essere del tutto improduttivo, se non addirittura pericoloso invece fra neofiti.

Insomma è una cosa complicata perché la resistenza che è bene fare da uke dipende da numerosi parametri diversi, e spesso è solo l'esperienza ciò che ci può guidare nei vari distinguo.

Una cosa è certa: con l'aumentare del livello di un praticante è naturale che anche il suo compagno possa aumentare in proporzione la sua resistenza (passiva e/o attiva)... poiché ciò risulta di beneficio a chi la riceve.


Essendo l'argomento importate quanto complesso, ci stiamo attrezzando con numerosi video esplicativi sul tema... quindi presto avrete buone nuove!

Stay tooned.


Marco Rubatto





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