lunedì 18 novembre 2024

Aikido: profondità o contingenza. Quali sono le tue priorità?

Più che in passato, sta accadendo che io venga contattato da persone (sia giovani, che più mature) che desiderano intraprendere la pratica dell'Aikido: e questo parrebbe un buon segno!

Purtroppo - da bravi neofiti assoluti - non leggeranno questo Post, e nemmeno sapranno che esiste il Blog... ma condividere questa esperienza potrà spero invece aiutare i molti che invece lo seguono... e che stanno vivendo esperienze analoghe.

Si percepisce una certa "esigenza" di fondo di fare qualcosa di positivo per se stessi... dedicarsi del tempo forse, riappropriarsi di una dimensione personale che se non stiamo ben attenti la nostra quotidianità ci sottrae, a forza di impegni di varia natura (nemmeno sempre così utili o edificanti).

Noto però anche un approccio che rischia di far partire con il piede sbagliato chi vuole fare il primo passo verso la disciplina... ovvero quello di mettere al primo posto innanzi tutto la CONTINGENZA.

Ovvio che cerchiamo una "palestra" vicina a casa, ovvio che controlliamo che abbia orari compatibili a quelli che abbiamo liberi... ovvio anche che cerchiamo un luogo che abbia quote sostenibili dal nostro portafoglio...

Tuttavia non abbiamo che pensato alla sola e mera CONTINGENZA per il momento.

Stiamo però cercando qualcosa di importante per noi, qualche attività tramite le quali stare meglio con noi stessi e forse pure con gli altri; cerchiamo qualcosa che ci faccia stare in forma, che ci supporti nel processo di unificazione mente-corpo... che ci faccia mettere in discussione fuori dalla nostra zona di comfort: questa però NON è mera contingenza... sono tutte esigenze legate ad una certa profondità, non trovate?

Paradossale quindi che i principianti (ma vedremo non solo loro) si occupino quasi SOLO di risolvere problemi di tipo pratico.

Molto raro che qualcuno mi chieda cosa sia l'Aikido o cosa differenzi questa disciplina da un'altra disciplina marziale giapponese o cinese... che si interessi in merito a quali dovrebbero essere i vari livelli di ingaggio o i risultati che potrebbero essere raggiunti attraverso una pratica costante.

Meno che mai ci si interessa a stili e Scuole e didattiche differenti: segno che queste cose interessano SOLO a noi che pratichiamo già.

Si vede che tutte questa cose le leggeranno su Wikipedia... o non si porranno nemmeno le questioni relative: però tutti a cercare il luogo più vicino, quello che costa meno, quello che possono andarci anche se faccio i turni.

Da un lato è comprensibile, dall'altro invece è un fenomeno che da da pensare (almeno a me)!

Qualche settimana fa, mi ha contattato un signore, non interessato ad un corso di Aikido (ma di Tai Ji Quan, che viene svolto comunque nel nostro Dojo), tuttavia risulta in ogni caso significativo il suo atteggiamento, per le questioni che mi ha posto.

Premetto che questo signore era già venuto a fare una prova del corso e sembrava esserne rimasto letteralmente entusiasta, affascinato ed ispirato...

Il nocciolo della questione era il seguente: mi chiedeva perché avrebbe dovuto pagare l'iscrizione annuale alla nostra A.S.D. (Associazione Sportiva Dilettantistica) pur non essendo ancora sicuro di frequentare il corso per un anno intero.

Questo signore ovviamente NON sapeva che essere assicurati presso un Ente è OBBLIGATORIO per la legge italiana sullo Sport e che quindi noi DOBBIAMO pretendere che il tesseramento avvenga (e la formula ANNUALE è l'unica esistente), in più siamo obbligati a richiedere un certificato medico in corso di validità (mi obbiettava che quelli sarebbero stati altri soldi da spendere a suo carico), sempre per ragioni legati all'assicurazione.

Inoltre sembravano esserci ulteriori problemi legati al suo abitare LONTANO dal Dojo e quindi una scomodità (e dei costi di trasporto) da aggiungere in caso avesse optato per la frequenza.

Tutte argomentazioni (quasi) ragionevoli, TUTTAVIA...

Gli ho fatto presente che avrebbe dovuto mettere in conto anche altri fattori, ad esempio:

- come si è trovato quando ha fatto la prova

- in che tipo di ambiente è stato accolto

- che preparazione aveva l'Insegnante che si è occupato di lui

- che tipo di rapporto avrebbe potuto intessere con l'Insegnante ed i suoi compagni

- quanto tiene allo studio del Tai Ji Quan

... giusto per elencare elementi ulteriori oltre a quelli che mi ha fatto presente lui.

Gli ho perciò posto anche questioni di SOSTANZA, oltre che relative a sistemarsi nel modo più comodo possibile un nuovo hobby.

Quanto Tai Ji Quan può imparare un neofita che NON pratica nemmeno per un anno consecutivo?

Quanto Aikido potrebbe imparare una persona se non si allenasse nemmeno un anno?

Ha senso inscriversi ad un corso di Aikido se si ha già la sua data di scadenza fissata?

(e sarebbe identico per qualsiasi altra disciplina)

A questo il neofita non pensa molto, mentre cerca la cosa che gli faccia fare la svolta nella vita a 3,50 €/mese, sotto casa e con un Insegnante che gli faccia lezione privata quando lui è più libero!!!

C'è uno stimato Maestro di Judo del Lazio che spesso ripete: "É chi ha sete che deve andare alla fonte a bere".

Molti cercano di fare di tutto per convincere la fonte a venire da loro... o sono disposti a bere in qualsiasi pozzanghera che trovano: sempre mentre sono alla ricerca della bottiglia di Vodka Billionaire (3,7 milioni di dollari a bottiglia).

Non pare un briciolo incoerente volere TUTTO ed essere disposti a dare quasi nulla di sé in cambio?

Non affermo che BISOGNA per forza pagare caro, essere scomodi per sedi ed orari... quanto che è necessario ANCHE pensare che il percorso ci richiederà di fare qualche sacrificio, se vogliamo sperare che per noi faccia la differenza, no?

E questi sono neofiti... e ce li prendiamo come vengono... ma siamo certi che sia poi tanto diverso per chi invece pratica già da un po'?

C'è gente che viene al Dojo ogni 3 settimane per 1 ora: si lamenta però poi che "sto Aikido però non riesce proprio per niente a decollare" come loro vorrebbero...

Meno male: altrimenti chi lo fa tutti i giorni sarebbe proprio un deficiente se bastasse praticare 4 ore a bimestre per ottenere un qualche risultato notevole! Non trovate?

Ed attenzione: anche quelli che vengono quasi sempre hanno un lavoro, una famiglia, le loro contingenze da mettere in quadro PRIMA di dedicarsi al loro hobby. Solo che questi ce la fanno ugualmente ad allenarsi: sono forse dotati di super poteri per dilatare il tempo?

O semplicemente sono anche disposti a qualche sacrificio PUR di mantenere una certa costanza?

Saranno persone che pensano alla loro CONTINGENZA, ma anche a ciò che per loro possiede una qualche forma di PROFONDITÀ, allo stesso tempo.

Ho allievi che quando sentono che c'è un evento importante in calendario - magari 1 al quale partecipare in 1 anno intero di pratica - vengono a dirmi: "Vorrei tanto venire, ma quel giorno festeggiamo il compleanno di mia suocera...".

Allora ricordati poi di andare a chiedere a tua suocera anche il prossimo passaggio di grado, sempre per coerenza: è qualcosa di paradossale non esserci mai per una disciplina, che vorresti sempre che ci fosse però per te, quando ne hai voglia tu!

Vediamola da un altro punto di vista: perché è così importante partecipare al proprio matrimonio, o al proprio funerale?

Forse perché non è possibile mandare nessun figurante al nostro posto: dobbiamo proprio esserci noi...

Ecco: è la stessa cosa anche con i doveri che ci siamo assunti nei confronti di noi stessi, ad esempio quelli della costanza negli allenamenti in un'attività che è BASATA sull'auto disciplina.

Se mia suocera compie gli anni nell'UNICO giorno all'anno nel quale ho l'opportunità di crescere nella disciplina che ho scelto PER CRESCERE... dite che si inalbererà molto se andrò a festeggiarla il giorno precedente o quello successivo?

É forse solo questione di comprendere quali sono le proprie priorità: non voglio suggerire che l'Aikido debba venire sempre prima della suocera... però che ciascuno di noi venga prima per se stesso rispetto a tutti gli altri SI!

Con gli Insegnanti non è che il discorso cambi tremendamente (purtroppo)...

Mutano forse le CONTINGENZE... diventano forse avere più allievi, il grado più altisonante, la palestra più bella e spaziosa: tutte cose sacrosante, ma siamo certi di stare lavorando (ancora) in direzione della nostra PROFONDITÀ?

Anche perché se smettiamo di farlo, ci trasformiamo nel peggiore degli allievi irresponsabili o in quei principianti che si arrendono già prima ancora di avere fatto qualche passo in avanti in ciò che interessa loro.

Infondo, se siamo in cerca di una SCUSA, finiremo per trovarla... e ciò sia da neofiti assoluti, che da praticanti consumati. Basta esserne però consapevoli e non lagnarci poi delle conseguenze della nostra scelta.

E - se ho inteso bene - la disciplina non farà altro che SPECCHIARCI chi siamo, piuttosto che ciò che desideriamo da essa.
Basta quindi dare all'Aikido la responsabilità delle nostri passioni tiepide e tristi: è perfido prenderci in giro in questo modo!


Marco Rubatto




lunedì 11 novembre 2024

Dietro le quinte dell'Aikido: l'arte della relazione malata

"Marco, ma ci pensi un attimo a cosa scrivi???"

"Si, che ci penso... anche più di un attimo, a dire il vero".

Ed in effetti l'Aikido sarebbe nota come "L'arte della relazione"... perché darle una connotazione patologica, quindi?

Se apriamo qualsiasi testo dedicato alla disciplina (introduttivo o meno che sia)... si vedrà un gran scrivere su carta, oppure si sentirà un gran vociare sul tatami "dell'armonia", fra noi ed il compagno che ci attacca, fra noi ed il conflitto... E si sprecheranno parole e pippozzi infiniti sulla necessità di rispetto, sull'esigenza di non ingerire sul partner, specie quando è inerme, sulla caratteristica NON violenta che dovrebbero connotare le azioni e le intenzioni di un Aikidoka... e bla, bla bla.

Ora, provate un attimo a venire con me DIETRO le quinte dell'Aikido...!

Sarà perché me ne occupo tutto il giorno e tutti i giorni... ma le questioni più comuni che mi capitano sulla scrivania, al telefono o suoi social sono relative a conflittualità da gestire/stemperare/sedare da parte di PRATICANTI (1) e non di certo della prima ora (2).

Spesso si tratta di Responsabili di Dojo, se non addirittura di Responsabili regionali o nazionali di questa o quella corrente, oppure Ente. E questo è strano, perché - se tutti i bla bla bla di prima fossero autentici - NON dovremmo incontrare così tante conflittualità (1) ed incontrarle SPECIE ai livelli più elevati della disciplina (2)!

Empiricamente però si constata che è proprio li che se ne incontrano maggiormente... segno che la maggior parte della filosofia che amiamo ed insegniamo non ha trovato vita ed applicazione nel nostro quotidiano, prima di tutto.

Uno dei primi bias che emerge è quello del "riconoscimento", ovvero della difficoltà che fanno gli Aikidoka ad essere apprezzati e valutati costruttivamente da altri Aikidoka, che provengono da percorsi differenti dai primi.

É un po' come dire che "l'Aikido è l'arte dell'inclusione"... ma solo per quelli che possono avere questa definizione IN ESCLUSIVA!

Non essere in grado di scorgere i lati positivi dell'esperienza di una persona, solo perché quella persona ne ha fatta una differente dalla nostra... non è questo gran bel segno di maturità, o della capacità di intraprendere relazioni sane, equilibrate e durature...

Ed infatti i vari Enti/gruppi hanno la tendenza a "ramificarsi", nel senso di scindersi in più correnti differenti... ma che di solito non ci tengono molto a mostrarsi collegati al luogo dal quale provengono.

É la dinamica di un figlio che si emancipa dal proprio genitore, ma lo riesce a fare solo dissociandosi in toto dal comportamento di quest'ultimo... anche se questi possedeva pregi, oltre ad un mare di difetti. In fin dei conti nostro padre e nostra madre rimarranno sempre tali... indipendentemente dalle persone che sono, che avrebbero voluto essere o che potrebbero diventare.

Perché camminare con le proprie gambe dovrebbe sempre essere sinonimo di avere sbattuto dietro a sé la porta di casa per chiuderla?

Quindi: dissociarsi dalle proprie origini è sovente la dinamica che adottano alcuni Aikidoka per cercare una "nuova verginità" nella disciplina... e qui siamo dinnanzi alla prima difficoltà di "riconoscimento" oppure di "riconoscenza", che hanno un prezioso etimo in comune.

Il passo successivo è quello di spostarsi da un ramo all'altro della "famiglia dell'Aikido" facendo una fatica notevole a vedersi riconosciuti come rami differenti dello stessa tipologia di pianta.

Sarà sicuramente anche perché la disciplina è così vasta che al suo interno comprende un po' tutto ed il suo contrario... quindi si fa particolare resistenza talvolta a riconoscere le proposte altrui come affini al lavoro che stiamo facendo: ma siamo sicuri che non sia più facile di come ci appare?

Io credo che ci sia del patologico nell'incapacità di scorgere il buono, il positivo ed il costruttivo che c'è in chi è differente da me: beh, gli Aikidoka questa difficoltà la provano tutta, segno che sono cresciuti con un profondo pregiudizio verso un operato differente dal proprio.

Sono stati un po' "catechizzati" da una parrocchia specifica... tanto da prendere per fedifraghi ed infedeli tutti quelli che attivano dalle diocesi limitrofe.

Li avete mai sentiti discorsi tipo: "Noi siamo i migliori di tutti"?... "Gli ALTRI fanno quello che possono"... Io li ho sentiti quotidianamente nell'Iwama Ryu, ma poi anche in altri gruppi e Scuole.

Più di una volta mi è capitato di sentire che un Insegnante richiedesse di ricominciare da capo il percorso a chi dovesse giungere da altrove, magari già possedendo alcuni gradi non banali.

Come dire: "Il percorso fatto senza di me, non è un percorso degno di lasciare strascichi!"

Ma come fa una disciplina apparentemente pregna di relazione ad mostrare tratti così esclusivi e svalutativi delle esperienze altrui?
Rammento che nella nostra attuale società la parola "esclusivo" viene utilizzata per indicare qualcosa di così FIGO che posseggo solo io e non possono avere gli altri, o che si possono permettere in pochi rispetto a tutti.

L'ESCLUSIVITÀ mette una barriera nella possibile relazione ed è l'esatto opposto di INCLUSIVITÀ, che invece è la base della connessione sulla quale si può basare una relazione... di qualsiasi tipo questa possa essere.

Come posso essere in grado di fondermi con il mio avversario, tanto da divenire una cosa sola con esso... ma non essere in grado di riconoscere altre persone sul mio stesso cammino, ma magari frequentanti presso un'altra Scuola, stile, didattica?

Mi pare un evidente controsenso... o segno che alcuni concetti al momento sono buoni SOLO in teoria, visto che non è possibile vederli comunemente applicati.

Ma i nostri "esperti" di Aikido non fanno solo questo... magari si fermassero qui!

Di solito utilizzano il propio peso esperienziale per ingerire su coloro che ne posseggono di meno: una sorta di "nonnismo" dei Senpai nei confronti dei Kohai, insomma.

Vediamo perciò gli Insegnanti che maltrattano i propri uke, in guisa di carne da macello, sacrificabile al fine di mostrare la propria bravura, potenza e velocità... ma anche le parti dirigenziali dei vari Enti prendere decisioni SUI loro associati... anziché CON i loro associati e PER i loro associati.

Una comunicazione top-down da manuale ("ti impongo/devi"), in completa assenza di quella bottom-up. Una gerarchia piramidale, capeggiata da sovrani tutto fuorché illuminati...

Questi sono nuovi segni di un rapporto di coercizione/dipendenza o di una relazione sicuramente malata fra gli individui. E perché accade proprio nell'Arte della relazione?

La relazione - qualsiasi essa sia - richiede e si basa sul RISPETTO: che forma di rispetto ci può essere dove c'è ingerenza di qualche natura?

- "Se non vieni al Seminar di Aikido poi non ti faccio dare gli esami o ti boccio".

- "Se vai al seminar di Aikido che ti ho vietato, poi non ti faccio dare gli esami o ti boccio".

- "Se non mi inviti a fare un Seminar di Aikido ogni tot tempo,  poi non ti faccio dare gli esami o ti boccio".

Credete che questi ricatti provengano dal medioevo giapponese?

Proprio NO: provengono dall'attuale Aikido Italiano e li ho visti con i miei occhi e sentiti con le mie orecchie una ventina di volte solo nell'ultimo paio d'anni.

Sapete quante volte mi è capitato di tenere un Seminar di Aikido e di avere partecipanti che provenivano da Scuole che avrebbero voluto impedire loro di essere li?

O quante volte ho preferito NON firmare i Budopass/Aikidocard di questi "anarchici" perché non avessero problemi con i loro abituali Insegnanti (despota) di riferimento?

Giusto una decina di giorni fa ho incontrato un Insegnante di Aikido con il quale ci siamo promessi di incontrarci presto sul tatami con i rispettivi gruppi... ma a "telecamere spente" per evitargli gli inevitabili problemi che questi avrebbe se nella sua Scuola si venisse a sapere che mi frequenta!

Ora: come può esserci una relazione SANA fra Scuole o fra Insegnanti ed allievi... se alla base della rapportazione ci sono delle ingerenze di questa tipologia?

Sapete... si credo che sappiate quanto si fa fatica anche solo a PARLARE di Aikido in un Social Media fra praticanti... specie, anzi, fra Insegnanti di questa disciplina.

C'è una tendenza devastante alla critica distruttiva, grazie alla quale chiunque farebbe sempre meglio di quello che asserisce qualcun altro: se posti una massima di O' Sensei... "troppo tempo sul Web anziché andarti ad allenare"; se posti un'immagine "bella caduta, ma l'uke che si è lanciato da solo"; se posto un video "si però secondo me quell'ikkyo così non funzionerà mai".

Se ti piace il self-defence "dovresti essere più filosofico"... se ti piace la filosofia "si, però l'Aikido è prima di tutto un'arte marziale"...

Queste dinamiche sono ben note sia in filosofia, che in psicologia: si tratta del pericolo di argomentare con uno scettico a priori.

Egli ha già scelto di trovare un punto debole della tua tesi, prima ancora che la enunci: lui non è li per ascoltarti, ma per farti muro... per rimbalzarti, far si che la tua azione venga ad annullarsi, grazie alla sua. Li chiamano anche passivi-aggressivi...

Ecco: siccome noi Aikidoka NON possiamo apparire aggressivi, visto che pratichiamo "l'arte dell'armonia", e NON possiamo essere passivi, perché pratichiamo "un'arte marziale"... finiamo per divenire "passivi-aggressivi" senza nemmeno essercene resi conto.

É inutile che ci riempiamo la bocca con alti concetti filosofici di rispetto, connessione, unità, condivisione ("Aikido no kazoku", la "famiglia dell'Aikido")... se poi abbiamo ancora le natiche piantate in questa melma umana e relazionale: diventiamo all'istante portatori di messaggi disfunzionali... e - per fortuna - le persone esterne al giro se ne accorgono (anche solo inconsciamente) e ci evitano come la peste.

Fate bene: rimanete distanti da chi non è capace di applicare le proprie filosofie nel quotidiano!
Noi Aikidoka siamo profondamente PROBLEMATICI, non tutti ovvio... ma la gran parte del movimento è ancora preda di bassezze egoiche del peggiore tipo: altro che "arte dell'armonia"... incarniamo più lo stereotipo dell'arte della relazione MALATA.

Prima lo realizziamo, e forse prima saremo in grado di uscire da questa condizione patologica, le cui nefaste conseguenze ricadono sull'intero movimento, pure su quelli che stanno facendo del loro meglio per cambiare le cose ed offrire alternative più SANE a queste dinamiche primitive, deleterie ed infantili.


Marco Rubatto




lunedì 4 novembre 2024

[ニの組] Ni no tachi ed il cambio di intenzione fulmineo

Riprendiamo la nostra esplorazione tecnica della spada dell'Aiki...

Ci eravamo lasciati QUI l'anno scorso, con una descrizione di ichi no tachi: ora procediamo con l'esercizio successivo.

Ni no tachi è anche il più LUNGO dei kumitachi codificati, e presenta un certo numero di punti importanti da conoscere; innanzi tutto, questo è il video che lo descrive...



L'esercizio (al solito eseguibile sia nella forma "dankai teki ni", che "awase", QUI la spiegazione del significato di questi termini) parte con un momento nel quale entrambi i praticanti passano dalla guardia media (chudan) a quella alta (jodan).

Durante un duello, sovente è accaduto storicamente che uno dei 2 contendenti iniziasse un'operazione di "mirroring", ovvero cercasse di specchiare i movimenti compiuti dal proprio avversario.

Questa operazione consente di mantenere tutte le possibilità che ha chi si sta muovendo "per primo", escludendo la possibilità che i movimenti del contendente lo portino in una condizione di vantaggio strategico: questo è per l'appunto ciò che accade all'inizio del secondo kumitachi.

Uchitachi (l'attaccante) alza la spada, ed uketachi (chi si difende) copia il suo movimento per mantenere una situazione di assoluta simmetria posturale, e quindi strategica.

Tuttavia, se si passa dalla guardia chudan a quella jodan non si può impedire che per qualche breve istante il proprio asse ottico venga coperto dalle proprie mani che ci passano davanti.

Precisamente in quell'istante (nel quale la vista è disturbata), uchitachi approfitta per scagliare il suo attacco a livello basso (gedan), tramite un taglio al ginocchio destro (hiza giri): questo dimostra che la volontà di sorprendere l'avversario e/o di coglierlo impreparato è una costante che accompagna tutti gli istanti del Budō.

Uketachi, prontamente, indietreggia e para il taglio al ginocchio con un fendente molto simile, che annulla l'attacco: questo però pone quest'ultimo in una condizione di VANTAGGIO, poiché ora egli è in grado di scorgere scoperti i polsi di uchitachi: si appresta quindi a sferrare un colpo che li intercetti, facendo ciò che nel Kendō si chiamerebbe "kote".

Per fare questo colpo di arresto sui polsi, uketachi è però costretto ad alzare la punta della sua spada... e questo libera in uchitachi la possibilità di sferrare un colpo di punta (tsuki), facendo un passo avanti con il piede sinistro (come avviene nel 7º suburi).

Questa sequenza quindi obbliga uketachi - che avrebbe voluto passare al contrattacco - ad un nuovo movimento di parata all'indietro: faccio notare che chi conosce la sequenza dell'esercizio sa già che cosa avverrà, ma il bello ed il complicato è quello di VIVERE il duello come se ciascuno NON sapesse ciò che l'avversario sta per fare.

Siamo quindi giunti al 2º movimento della sequenza di 6... con un botto di strategia militare, di tentativi di sorprendere l'avversario e di cambio di intenzioni durante l'azione stessa.

Al 3º movimento uchitachi prende l'iniziativa di attaccare con un fendente laterale (gyaku yokomenuchi) la tempia sinistra dell'avversario... ma questi para anche questo attacco indietreggiando.

Qui accade nuovamente però qualcosa di molto interessante: è nuovamente uketachi che vuole prendere l'iniziativa sul suo compagno, ma la spada di quest'ultimo gli impedisce di farlo in sicurezza; inizia quindi un movimento avvolgente (maki otoshi), che serve ad allontanare la spada di uchitachi dalla propria traiettoria di entrata desiderata.

Se uchitachi stesse fermo lo scontro finirebbe qui, così come sarebbe finito al 2º movimento, se egli avesse ricevuto il colpo di arresto sui polsi.

Egli però fa qualcosa di molto "Aiki", ovvero cede e lascia che la propria arma venga spostata dalla spazzata di uketachi... per poi utilizzare quell'energia in modo spiraliforme, ed entrare nuovamente con un colpo di punta (tsuki) a sinistra (sempre come avviene nel 7º suburi).

Uchitachi utilizza quindi l'azione dell'avversario per trasformare un momento di pericolo per se stesso, in un'occasione per vincere lo scontro.

Ciò fa si che uketachi debba nuovamente cambiare intenzione durante il movimento stesso: dopo il maki otoshi non si può più permettere di entrare e controllare l'avversario, ma dovrà arretrare e parare lo tsuki, così come era già avvenuto nel 2º movimento della sequenza.

Termina la sequenza un nuovo fendente laterale (gyaku yokomenuchi) da parte dell'attaccante, che però questa volta viene fermato da uketachi, grazie al controllo del centro dell'avversario: questo passaggio è in tutto e per tutto simile al 3º, ma con una variazione di distanza (maai), che ora viene ridotta... eliminando la possibilità per uchitachi di proseguire ulteriormente con l'azione.

Per tutta la sequenza, uketachi ha utilizzato una modalità di ricezione della spada (ukeru ken) che consentiva al proprio avversario di avere ancora lo spazio sufficiente a proseguire, mentre nell'ultimo passaggio la spada viene utilizzata come l'elemento che decide che lo scontro deve terminare  qui (kimeru ken)

Ho provato a fare la "telecronaca" di ciò che avviene, per mettere in evidenza quanti e quali sottili scambi e variazioni di intenzione avvengono in questi 6 passaggi codificati.

In realtà in ogni kumitachi avvengono questi CAMBI di INTENZIONE, ma il 2º kumitachi è l'unico nel quale essi investono per ben 2 volte uketachi (negli altri lo riguardano solo 1 volta, oppure riguardano anche uchitachi). Ovvio quindi che - dopo un po' di allenamento - sia più semplice realizzare la sequenza in modo formalmente corretto... ma continuerà ad essere complicato viversi ciascuno di questo cambi di intenzione come se fosse qualcosa che ci sorprende sul momento, per la PRIMA volta.

Essendo questo l'esercizio più lungo di Aiki ken, è possibile avere un numero di varianti molto più alto, rispetto agli altri kumitachi: ci sono ben 4 "finestre" di possibilità di variazione ("geki no henka"), sempre operate da uketachi, che può terminare quindi il duello in modo differenti, rimanendo nell'ambito dell'Aiki ken (ken no riai), oppure entrando nel reame del taijutsu (taijutsu no riai).

Eccovi un video dal nostro canale YouTube nel quale, a titolo d'esempio, di vedono 10 variazioni:

- 3 ichi geki no henka (prima opportunità di variazione),  2 ken no riai e 1 taijutsu no riai;

- 1 ni geki no henka (seconda opportunità di variazione), ken no riai

- 4 san geki no henka (terza opportunità di variazione), 2 ken no riai e 2 taijutsu no riai;

- 2 yon geki no henka (quarta opportunità di variazione), 1 ken no riai e 1 taijutsu no riai.



Ciò che mi piacerebbe emergesse da questa disamina - in ogni caso - è il vastissimo studio e bagaglio che il Fondatore dell'Aikido ci ha lasciato in eredità, a nostra volta da studiare e comprende al meglio delle nostre capacità.

Buon keiko a tutti.


Marco Rubatto





lunedì 28 ottobre 2024

Quando muore un Aikidoka: un lutto complesso da vivere

Quando si fa parte di un gruppo o di un movimento si è inseriti in un contesto sociale, non importa quando ampio... e come tale è naturale che in esso PRIMA o POI qualcuno venga a mancare.

Se siamo le persone che compiono il trapasso, tanto quanto dovremmo essere privilegiati e supportati nell'avere praticato una disciplina marziale, nella quale l'incontro con la morte (almeno fino a questo momento in modo figurato) dovrebbe essere all'ordine del giorno, o almeno del keiko.

Ma se siamo gli altri, quelli che restano?

Più la pratica sul tatami si allunga e più sarà facile incorrere nell'esperienza che qualche nostro compagno ci lasci per sempre, talvolta dando un congruo preavviso, e dandoci la possibilità in qualche modo di prepararci (come nel caso di una malattia più o meno degenerativa), talvolta invece all'improvviso (come accade negli incidenti o, peggio ancora, nei suicidi).

E, siccome la morte dalle nostre parti è ancora un gran tabù, veniamo colti alla sprovvista, sia se siamo dei compagni di pratica, sia se siamo gli Insegnanti, che devono farsi carico delle dinamiche umane del gruppo del quale sono membri o addirittura i responsabili.

Fin da ora è importante dividere questa difficoltà in 2 aspetti molto differenti fra loro:

- il bene sincero che vogliamo a chi se ne va ed il dispiacere - tutto umano - di non poterlo più incontrare, ed interagire; il vuoto che sentiamo nella nostra vita lasciato da chi non c'è più;

- la proiezione di noi che facciamo sull'evento funebre; la paura che noi stessi abbiamo di affrontare un momento che sappiamo prima o poi arriverà, ma che è fuori dal nostro controllo sapere come e quando.

É fondamentale, secondo me, scindere il problema (almeno) in questi 2 ambiti, perché essi tenderanno a mischiarsi ed aggrovigliarsi nel momento in cui viene a mancare un nostro compagno di pratica.

Tutti i contesti che prevedono un forte impatto emotivo sono capaci di farci provare sia il paradiso, che l'inferno qui in terra: pensiamo a quanto siamo al 7º cielo quando ci innamoriamo... così come quanto può essere forte il senso di colpa di avere maltrattato il nostro compagno che non c'è più l'ultima volta che lo abbiamo incontrato, senza avere ora la possibilità di chiedergli scusa, di rimediare in qualche modo.

Il primo aspetto lo possiamo mitigare considerando nel modo migliore le persone FINO A CHE CI SONO, sapendo bene che non abbiamo la possibilità di determinare quando finiremo di frequentarle. Provare dolore per la scomparsa di un amico è poi naturale, ma possiamo anche celebrare l'importanza della sua presenza quando c'è... senza rimandare ad accorgerci di tutto ciò solo quando questa viene a mancare.

Altrimenti diamo gli altri "per scontati" e ci accorgiamo che non lo sono affatto SOLO quando scompaiono dalle nostre vite.

Se ci abituiamo a questo paradigma saremo profondamente incoerenti, poiché incapaci di vivere appieno il momento presente... salvo poi disperarci (inutilmente) di tutti gli attimi di vita persi insieme, solo quando non è più possibile viverli.

Io secondo aspetto invece è mitigabile smettendola di rilegare la morte a qualcosa di poco plausibile, e - soprattutto - che accade sempre e solo a gli altri. Da un lato vogliamo allontanare da noi il pensiero di quando ci toccherà fare questo passaggio e non potremo mandare un nostro sostituto... dall'altro tutto ciò che evitiamo di affrontare tendiamo a specchiarlo negli altri.

Quindi NON ci dispiacerà SOLO perché il nostro compagno se n'è andato... ma soffriremo anche perché gli eventi tipo quelli che sono accaduti a lui ci fanno una paura FOTTUTA!

Conosco persone che non riescono nemmeno a nominare la morte, e si rifiutano anche solo di pensare all'idea della propria o altrui: ma la vita è GIUSTA ed impassibile di fronte a questi meccanismi di rimozione ossessivo-compulsivi... e di solito continua a metterci di fronte proprio a ciò che temiamo di più.

La separazione, così come l'unione... sono la madre ed il padre di tutti gli archetipi: in Aikido li utilizziamo in continuazione;

- uke ci attacca e da separato è costretto a toccarci, quindi ad unirsi a noi;

- possiamo diventare uno con lui e quindi separarci nuovamente, nel nage waza;

(oppure)

- possiamo diventare uno con lui e poi rimanere in questa condizione, nel katame waza;

La condizione di riunificazione viene prima di tutto, ma il nage waza è considerato meno basilare del katame waza... forse proprio perché riprendere distanza dall'altro è più complicato di quanto non s'immagini... specie quando siamo stati molto bene INSIEME.

In un certo senso, ed in una prospettiva più alta, essere separati sappiamo dentro a noi essere "innaturale"... essendo parte di un tutto armonico, che include noi ed il prossimo.

La sensazione - tutta e solo umana - che l'altro "vada via", "non ci sia più" non è solo errata, ma anche solo momentanea... poiché la viviamo SOLO fino a quando siamo inseriti in un contesto spazio-temporale. Però è proprio in questo contesto che siamo ORA!

La nostra anima o il nostro sé superiore sa benissimo che tutto ciò è mera apparenza, ma è necessario esperire tutto ciò a livello personale, non convincersene perché lo dico io o lo afferma qualcun altro.

E siccome scarseggiano individui in grado di percepire la propria immortalità in modo conscio, allora ci attacchiamo a tutto: agli altri, alla religione... a qualsiasi cosa ci faccia sentire meno soli e meno in pericolo in questi contesti di "frontiera". In una sola parola "reagiamo"... nonostante essere praticanti di una disciplina che va oltre il concetto dualistico di azione e reazione.

Questi impasse quindi colgono il 99% delle persone, praticamente mai pronte alla dipartita né propria, né altrui.

Accade anche che queste persone in difficoltà siano proprio gli Insegnanti di Aikido, ai quali non viene chiesto di studiare tanatologia o di fare un corso di preparazione alla dipartita durante il proprio apprendistato da docente. Di solito ci accontentiamo che non facciano ikkyo in modo troppo becero, per osare lanciarci in tematiche così "fuori dalla comune portata".

E qui sbagliamo di brutto!

Perché un Insegnate di Aikido - a mio dire ovviamente - dovrebbe prepararsi ad un evento come questo... che gli toccherà COMUNQUE vivere, se ha intenzione di frequentare per un tot di anni il tatami. Lo sanno bene tutti i docenti che hanno accomunato una certa esperienza: prima o poi accadrà che qualcuno del gruppo ci lasci. Allora cosa dire agli altri?

Come affrontare una tematica così delicata ed importante insieme al proprio gruppo?

Credete che basterà fare finta di niente?

Per un malore improvviso, ci sono persone che sono decedute propio al Dojo, per esempio... e se non si è capaci di affrontare al meglio l'evento (o non ci si fa aiutare da chi lo è) rischiamo che rimanga una ferita indelebile nei trascorsi di tutti coloro che erano presenti (e pure di quelli che fisicamente magari non erano li, ma che appartengono a quel gruppo).

Ci potrebbero essere persone che smettono di praticare per non vivere continuamente il ricordo di chi è scomparso, altri che smettono perché non vogliono frequentare un luogo nel quale hanno preso contatto con un aspetto della vita che fanno fatica ad affrontare in modo maturo e sereno.

É quindi MOLTO importante COME si pone un Insegnante in questi casi, e ve lo assicuro per pura esperienza personale. La capacità di offrire una chiave di lettura positiva ed integrante per chi resta credo sia fondamentale. Ma come fare, se il Maestro si rivela fra chi cade nel propio baratro...

Il "lasciare andare" che chiediamo a noi stessi in una buona ukemi è parente dello smettere di tenere tutto sotto controllo, compresa le durate delle vite (propria ed) altrui. L'accettazione dell'ignoto è tutto ciò che viviamo in un randori... perché così tanta fatica a vivere gli stessi principi, quando essi ci toccano in altri ambiti?

Paolo di Tarso ("San Paolo" per gli amici) afferma che Cristo, nella sua seconda venuta, metterà "tutti i nemici sotto i suoi piedi" (25) e, "come ultimo nemico, sconfiggerà infine anche la morte" (26). Ecco: non vorrei apparire un tantino blasfemo... ma non credo proprio che andrà così, o almeno non ho il tempo per attendere e verificare come andrà. Anche perché molti di noi devono fare pace con questo processo ORA, e non se o quando qualcuno verrà a toglierci le castagne dal fuoco.

La morte per me NON è nemmeno un nemico, a dirla tutta, ma una delle componenti ESSENZIALI della vita stessa... elemento che le conferisce senso, valore e significato... e della quale NON rappresenta per nulla il contrario (il contrario di "morte" è "nascita", infatti): essere in grado di armonizzarsi con la morte, quindi, a me suona come necessario per vivere una vita piena e gioiosa.

Attribuiamo un sacco di limiti e brutture alla morte SOLO perché il nostro corpo si disfa, perché in questa dimensione spazio-temporale perdiamo la capacità di comunicare con chi non è più fisicamente accanto a noi, perché ci appare come una soglia oltre la quale c'è un ignoto silenzioso... e che come tale ci spaventa. Ma pratichiamo per affrontare le nostre paure o per nasconderle sotto il tappeto, nella speranza di non accorgersi di averle?

Veramente crediamo che non esista tutto ciò che non siamo (ancora) in grado di percepire?

Allora, non solo la vita deve necessariamente finire con la morte, ma non esistono nemmeno gli SMS, le e-mail ed un sacco di frequenze elettromagnetiche e sonore... che siamo incapaci di rilevare senza devices (telefono, computer o dispositivi) specificamente crearti per mostrarci ciò che sarebbe celato ai nostri sensi ordinari.

Ho sempre vissuto male l'ipotesi di un ipotetico dio che ci obbliga ad iniziare il nostro viaggio con una festa, nella quale tutti sorridono e ci augurano il meglio... ed a terminarlo con un momento di tristezza generale, nel quale tutti si disperano per la nostra scomparsa: ci deve essere evidentemente qualcosa che non abbiamo colto - collettivamente parlando - dell'esperienza terrena della vita!

In generale, sono uno che si lascia il boccone più buono per la fine... che vuole terminare col botto, non di certo in modo addolorato.

Forse parlo così perché ho la fortuna (non è solo fortuna, è più forse una semplice abitudine) di guardarmi dentro da un tot di anni, ed andare a cercare risposte importanti nell'unico luogo nel quale - spesso - non hanno nemmeno più senso certe domande.

Però credo che un Insegnante di Aikido dovrebbe stimolare questo nei propri allievi: non "indottrinarli" con la propria religione preferita, ma spronarli a fare le LORO esperienze personali dirette ed immediate (non-mediate)... incoraggiandoli a farsi anche le domande più scomode e non mettere la testa sotto la sabbia quando incontrano qualcosa che fa loro timore o genera sofferenza. Sono convinto che questo sia parte imprescindibile della pratica.

Allora non stapperemo di certo bottiglie di champagne quando qualcuno del Dojo verrà a mancare, ma almeno sapremo vivere quel momento delicato e denso come qualcosa di costruttivo ed utile, per noi e per la community alla quale apparteniamo. Un ottimo modo direi di onorare la memoria di chi non c'è più!

Ci sarà di sicuro un tempo per le lacrime, sarebbe fuorviante pensare il contrario, perché il dolore della separazione ci sarà COMUNQUE, però ci sarà anche una nuova "fragranza" nel cuore, sentendo i nostri compagni riunirsi a quell'essenza di cui anche noi facciamo parte... sebbene ci si possa sentire abbastanza esuli in questo tirocinio intensivo sul pianeta Terra, immemori pure di averlo scelto.

Marco Rubatto


PS: Andrea, Giancarlo, Alan... grazie di tutto, vi vogliamo BENE!