Eccoci nuovamente a discutere del leggendario Aiki- gonnellone, ma questa volta in un ottica storico-critica che meglio permetta di mettere a fuoco sia le tradizioni, che i falsi miti.
La storia dell’hakama è di per sé amplia e complicata come la tradizione giapponese stessa, ma ora ci limiteremo a guardare ad essa nell’ottica dell’Aikido, Arte che ufficialmente non ha ancora 100 anni (nel 1908 Morihei Ueshiba Sensei aveva infatti solo 35 anni!).
Proprio da O’ Sensei partiamo nella nostra dissertazione, sfatando una credenza molto diffusa, ossia che l’hakama si debba indossare soltanto al raggiungimento del 1° Dan.
O’ Sensei pareva infatti considerare fondamentale che ciascuno praticante indossasse sempre l’hakama, provenendo egli da un tempo e da una cultura nei quali essa rappresentava un abbigliamento formale standard. A riprova di ciò, si riportano alcuni frammenti di un’intervista rilasciata da Mitsugi Saotome Sensei, riguardante una sua diretta esperienza con il Fondatore.
“Quando ero uchi deshi di O’ Sensei ad ognuno era richiesto di indossare l’hakama per praticare, sin dalla prima volta che si saliva sul tatami. Non c’erano restrizioni sul tipo di hakama, così il Dojo era un posto molto colorato. Si vedevano hakama di tutti i colori e tutte le qualità: dall’hakama del Kendo all’hakama a strisce usata nella danza giapponese… fino alla costosa hakama di seta, chiamata sendai-hira. Immagino che alcuni principianti facessero l’impossibile per prendere in prestito l’hakama costosa del nonno, indossata solo in particolari occasioni e cerimonie, e logorando le ginocchia nella pratica in suwari waza (tecniche in ginocchio). Ho un ricordo vivido del giorno in cui scordai la mia hakama. Mi stavo preparando a salire sul tatami indossando solo il mio dogi quando O’ Sensei mi fermò.
- Dov’è la tua hakama? - mi domandò severamente.
- Cosa ti fa pensare di ricevere istruzioni dal tuo insegnante indossando nient’altro che la biancheria intima? Non hai il senso del decoro? Sei evidentemente carente nell'atteggiamento e nell’attitudine necessari ad uno che persegue l’addestramento nel Budo. Vai all’angolo e guarda la lezione -.
Fu solo la prima di molte sgridate che avrei ricevuto da O’ Sensei. Comunque, la mia ignoranza in questa occasione spinse O’ Sensei a parlare ai suoi uchi deshi dopo la lezione sul significato dell’hakama.
Ci disse che essa era un vestito tradizionale degli studenti del Kobudo e chiese se conoscevamo le ragioni delle sette pieghe dell’hakama: - Simbolizzano le sette virtù del Budo -, disse O’ Sensei, - Troviamo queste qualità nei Samurai del passato. L’hakama ci suggerisce di riflettere sulla natura del vero Bushido. Indossarla simboleggia le tradizioni che sono state tramandate fino a noi di generazione in generazione. L’Aikido è nato dallo spirito del Bushido del Giappone e nella nostra pratica dobbiamo sforzarci di perfezionare le sette virtù tradizionali -.
Attualmente la maggior parte dei Dojo non segue la politica severa del Fondatore, riguardo al portare l’hakama. Il suo significato è degenerato da simbolo di virtù tradizionale a quello di status symbol per yudansha. Sono stato in molti Dojo di tante nazioni. In molti dei luoghi dove solo gli yudansha indossano l’hakama, gli stessi hanno perso la loro umiltà. Pensano all’hakama come ad un premio da mostrare, come simbolo visibile della loro superiorità.
Quest'atteggiamento fa della cerimonia del saluto ad O’ Sensei, con la quale iniziamo e finiamo la lezione, una derisione alla sua memoria e arte.
Peggio ancora, in alcuni Dojo, alle donne di grado kyu (e solo le donne) è richiesto di indossare l’hakama, apparentemente per conservare il loro pudore. Per me questo è un insulto ed una discriminazione alle donne Aikidoka.
Può sembrare un problema banale per alcuni, ma ricordo molto bene la grande importanza che O’ Sensei poneva sull’indossare l’hakama. Non posso sminuire il significato di quest’indumento, e nessuno, io penso, può contestare il gran valore delle virtù che simboleggia.
Sento che indossare l’hakama e conoscere il suo significato, aiuta gli studenti ad essere attenti allo spirito di O’ Sensei e tenere viva la sua visione.
Se permettiamo all’importanza dell’hakama di affievolirsi, forse permetteremo che le cose fondamentali dello spirito dell’Aikido scivolino nell’oblio. Se, da un lato, noi siamo fedeli ai desideri di O’ Sensei riguardo all’abito di pratica, il nostro spirito sarà più fedele ai sogni cui dedicò la sua vita”.
Da dove quindi può provenire la norma di indossare questo importante indumento tradizionale solo da un certo punto della propria pratica in poi, in apparente contrasto con l’importanza di farlo sempre e fin da subito… appena rimandata da Morihei Ueshiba stesso?
Presto detto!
Il contesto storico, come spesso accade, viene in aiuto per comprendere le evoluzioni dei comportamenti che gli uomini adottano: stiamo parlando di un Giappone - quello che vedeva crescere la popolarità dell’Aikido - appena dilaniato dalla sconfitta della Seconda Guerra Mondiale, in uno stato di carenza economica, di grande volontà di tirarsi su le maniche e desideroso di iniziare la ricostruzione della sua società.
Mediamente il tempo per acquisire il grado di yudansha si aggirava in non più di un anno (di pratica quotidiana… persino due/tre allenamenti al giorno), e così il gruppo dei sempai di O’ Sensei descriveva quel periodo:
“Agli studenti veniva richiesto di averne una, ma essi potevano essere troppo poveri per acquistarla. Se non avevano la possibilità di averla in prestito da qualche anziano parente, erano soliti ricavarla dalla fodera di un vecchio futon, tagliandola, tingendola e consegnando il tutto nelle mani di un sarto. Dal momento che dovevano usare tinte economiche, comunque, dopo un po’ i disegni colorati del futon iniziavano pian piano ad emergere nuovamente”.
In un‘intervista rilasciata da Morihiro Saito Sensei ad una rivista nipponica emerse che nel dopoguerra c’erano molte cose difficili da trovare in Giappone, inclusi i vestiti. Per questa mancanza si allenavano senza hakama. Ci si ingegnava a procurarsene una ritagliando le tende, però, essendo esse state appese per molti anni al sole, era facile che si polverizzassero subito all’altezza delle ginocchia, appena si iniziavano a praticare tecniche in suwari waza. Egli afferma che gli allievi erano soliti rammendare in continuazione queste loro creazioni.
In queste precarie condizioni, a qualcuno venne in mente di proporre: “Perché non proporre di stare senza hakama fino a shodan?”. Questa idea fu portata avanti come politica temporanea per evitare di spendere, ed eventualmente per racimolare i soldi necessari ad un acquisto, ma non aveva niente a che fare con il concetto di nobiltà dell’acquisizione dei gradi.
Shigenobu Okumura Sensei ribadiva che, quando lui era uchi deshi di O’ Sensei, ad ognuno veniva richiesto di indossare questo abito fin da subito, e non c’erano restrizioni sul tipo di hakama che era consentito tenere, per cui i Dojo erano luoghi più variopinti di quanto si potesse immaginare.
Da questa grande attenzione verso un indumento costoso e difficile da reperire, deriva anche la tradizionale usanza di non indossare l’hakama nella pratica con le armi all’aperto: sporcarla gravosamente (erba, sabbia, fango…) avrebbe necessitato ulteriori lavaggi e, naturalmente, ulteriore logorio ed indebolimento del prezioso gonnellone.
Cerchiamo quindi di delineare, in ragione di quanto fin qui esposto ed in ultima analisi, cosa l’hakama non dovrebbe rappresentare - a costo di entrare in conflitto con molti luoghi comuni comunemente accettati – traducendo parte di un articolo di Nev Sagiba Sensei:
Presto detto!
Il contesto storico, come spesso accade, viene in aiuto per comprendere le evoluzioni dei comportamenti che gli uomini adottano: stiamo parlando di un Giappone - quello che vedeva crescere la popolarità dell’Aikido - appena dilaniato dalla sconfitta della Seconda Guerra Mondiale, in uno stato di carenza economica, di grande volontà di tirarsi su le maniche e desideroso di iniziare la ricostruzione della sua società.
Mediamente il tempo per acquisire il grado di yudansha si aggirava in non più di un anno (di pratica quotidiana… persino due/tre allenamenti al giorno), e così il gruppo dei sempai di O’ Sensei descriveva quel periodo:
“Agli studenti veniva richiesto di averne una, ma essi potevano essere troppo poveri per acquistarla. Se non avevano la possibilità di averla in prestito da qualche anziano parente, erano soliti ricavarla dalla fodera di un vecchio futon, tagliandola, tingendola e consegnando il tutto nelle mani di un sarto. Dal momento che dovevano usare tinte economiche, comunque, dopo un po’ i disegni colorati del futon iniziavano pian piano ad emergere nuovamente”.
In un‘intervista rilasciata da Morihiro Saito Sensei ad una rivista nipponica emerse che nel dopoguerra c’erano molte cose difficili da trovare in Giappone, inclusi i vestiti. Per questa mancanza si allenavano senza hakama. Ci si ingegnava a procurarsene una ritagliando le tende, però, essendo esse state appese per molti anni al sole, era facile che si polverizzassero subito all’altezza delle ginocchia, appena si iniziavano a praticare tecniche in suwari waza. Egli afferma che gli allievi erano soliti rammendare in continuazione queste loro creazioni.
In queste precarie condizioni, a qualcuno venne in mente di proporre: “Perché non proporre di stare senza hakama fino a shodan?”. Questa idea fu portata avanti come politica temporanea per evitare di spendere, ed eventualmente per racimolare i soldi necessari ad un acquisto, ma non aveva niente a che fare con il concetto di nobiltà dell’acquisizione dei gradi.
Shigenobu Okumura Sensei ribadiva che, quando lui era uchi deshi di O’ Sensei, ad ognuno veniva richiesto di indossare questo abito fin da subito, e non c’erano restrizioni sul tipo di hakama che era consentito tenere, per cui i Dojo erano luoghi più variopinti di quanto si potesse immaginare.
Da questa grande attenzione verso un indumento costoso e difficile da reperire, deriva anche la tradizionale usanza di non indossare l’hakama nella pratica con le armi all’aperto: sporcarla gravosamente (erba, sabbia, fango…) avrebbe necessitato ulteriori lavaggi e, naturalmente, ulteriore logorio ed indebolimento del prezioso gonnellone.
Cerchiamo quindi di delineare, in ragione di quanto fin qui esposto ed in ultima analisi, cosa l’hakama non dovrebbe rappresentare - a costo di entrare in conflitto con molti luoghi comuni comunemente accettati – traducendo parte di un articolo di Nev Sagiba Sensei:
"[...]
- L’hakama non è un’icona religiosa o qualcosa che denoti un’importanza astratta;
- L’hakama non ha nulla a che vedere con i gradi;
- L’hakama non è un indumento che autorizza chi lo indossa a sentirsi superiore a chi non lo indossa;
- L’hakama non è una gonna;
- L’hakama può essere di qualsiasi colore o combinazione di colori e molto altro ancora;
- L’hakama non è un indumento creato per estetica o per impressionare qualcuno;
- L’hakama non serviva (come si crede comunemente) per nascondere il movimento dei piedi. Qualcuno crede a questo, ma posso assicurare che i guerrieri non erano interessati ai passi di danza, quanto piuttosto all’uccisione dei loro nemici.
Nel Budo allineare la posizione è di importanza fondamentale è […] La stabilità è sinonimo di sicurezza. Nel lavoro con la spada, una posizione errata può condurre alla sconfitta, letteralmente alla perdita della faccia, quando una lama è brandita dall’avversario, oppure un naso contuso o rotto da un bokken. L’hakama è un ricordo di posizione adeguata, posizione invincibile. Prendetela come tale".
E se di stabilità vogliamo parlare, di postura… forse della mente più ancora che del corpo, allora è con equilibrio che dobbiamo considerare ogni questione inerente agli indumenti che indossiamo, siano essi tradizionali, alla moda, d’oriente o d’occidente.
L’hakama è una tradizione da indossare, che può essere fatta rivivere con i propri atti, può essere addirittura fatta evolvere nel tempo… ma che certamente non è da snaturare con ideologie ad essa poco affini o da equivocare non conoscendo con precisioni i fatti storici che hanno determinato le scelte contingenti del suo utilizzo (o abbandono)…
In conclusione: come potremmo definire, quindi, questo curioso indumento!?!
“Una sfida a pieghe”, forse… una sfida a noi stessi per scoprire se siamo capaci di fare tesoro dei preziosi strumenti donati da chi, prima di noi, percorreva con impegno la sua Via.
Ci piace pensare che, così facendo, anche il lavoro di O’ Sensei non andrebbe per nulla perso… anzi, sarebbe ulteriormente valorizzabile.
- L’hakama non è un’icona religiosa o qualcosa che denoti un’importanza astratta;
- L’hakama non ha nulla a che vedere con i gradi;
- L’hakama non è un indumento che autorizza chi lo indossa a sentirsi superiore a chi non lo indossa;
- L’hakama non è una gonna;
- L’hakama può essere di qualsiasi colore o combinazione di colori e molto altro ancora;
- L’hakama non è un indumento creato per estetica o per impressionare qualcuno;
- L’hakama non serviva (come si crede comunemente) per nascondere il movimento dei piedi. Qualcuno crede a questo, ma posso assicurare che i guerrieri non erano interessati ai passi di danza, quanto piuttosto all’uccisione dei loro nemici.
Nel Budo allineare la posizione è di importanza fondamentale è […] La stabilità è sinonimo di sicurezza. Nel lavoro con la spada, una posizione errata può condurre alla sconfitta, letteralmente alla perdita della faccia, quando una lama è brandita dall’avversario, oppure un naso contuso o rotto da un bokken. L’hakama è un ricordo di posizione adeguata, posizione invincibile. Prendetela come tale".
E se di stabilità vogliamo parlare, di postura… forse della mente più ancora che del corpo, allora è con equilibrio che dobbiamo considerare ogni questione inerente agli indumenti che indossiamo, siano essi tradizionali, alla moda, d’oriente o d’occidente.
L’hakama è una tradizione da indossare, che può essere fatta rivivere con i propri atti, può essere addirittura fatta evolvere nel tempo… ma che certamente non è da snaturare con ideologie ad essa poco affini o da equivocare non conoscendo con precisioni i fatti storici che hanno determinato le scelte contingenti del suo utilizzo (o abbandono)…
In conclusione: come potremmo definire, quindi, questo curioso indumento!?!
“Una sfida a pieghe”, forse… una sfida a noi stessi per scoprire se siamo capaci di fare tesoro dei preziosi strumenti donati da chi, prima di noi, percorreva con impegno la sua Via.
Ci piace pensare che, così facendo, anche il lavoro di O’ Sensei non andrebbe per nulla perso… anzi, sarebbe ulteriormente valorizzabile.
Questo blog è favoloso e il post sull'hakama è veramente interessante. Complimenti!
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