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lunedì 5 gennaio 2009

先生 Sensei: termine famoso ma talvolta travisato


Certamente chi pratica da qualche tempo si sarà imbattuto nella parola giapponese "Sensei" [先生] ... è molto semplice che ciò sia accaduto!

Questo termine viene spesso utilizzato per riferirsi a chi insegna Aikido, quale fosse una sorta di nomina, è altrettanto spesso tradotto come "Maestro", ma ciò risulta una parziale travisazione del suo significato giapponese originario.

Morihei Ueshiba è stato risaputamene chiamato “O' Sensei” dai suoi allievi, dove la lettera accentata è una contrazione fonetica del termine “Okii” [大き], ossia “grande”… e quindi il titolo viene tradotto con “Grande Maestro”… che probabilmente nel caso di Ueshiba Sensei è un’interpretazione più che corretta… ma il titolo “Sensei” in giapponese non spetta di diritto solamente all’Istruttore di un corso di Arti Marziali, in quanto viene utilizzato in modo diffuso nella società per indicare chi sta insegnando qualcosa a qualcun altro… anche se non eccelle in tecnica, elevazione morale o spirituale. Non ha in sé la veste lucente che molti occidentali vorrebbero attribuire al termine, benché resti a tutti gli effetti un titolo onorifico.

Lo è tuttavia in un senso che pare essere molto importante cogliere: solo dal prossimo è possibile essere chiamati Sensei, ossia da chi sta riconoscendo ad un altro la capacità di insegnare qualcosa che prima non sapeva. Non è importante però cosa: chi tramanda una ricetta di cucina può essere Sensei, lo può essere chi insegna ad allacciarsi le scarpe o fare il nodo alla cravatta, ma così può anche essere chiamato l’allenatore di calcio delle squadre dei pulcini… o un bambino stesso che con il suo fare ci fa riflettere e cogliere qualcosa di importante su cui in precedenza non ci eravamo soffermati.

Ad un Sensei, di per sé, non è richiesto di essere preparato in una particolare disciplina, poiché si può insegnare volutamente, ma anche senza nemmeno rendersene conto. È il prossimo che giudica: è come se questo termine rispecchiasse l’effetto che fa agli altri stare vicino ad una persona, che, in qualche modo, li introduce al loro… prossimo passo, qualunque esso sia ed in qualsiasi contesto si collochi.

Il termine Sensei è tradizionalmente considerato onorifico, poiché semanticamente significa “colui che è più avanti nel cammino”. Ma nuovamente, di quale cammino si tratta?

È indifferente: qualsiasi cammino in cui qualcun altro si trova più indietro.
Ecco come mai, di per sé, ciascuno può dalla sua posizione può divenire Sensei di qualcun altro. Sviluppiamo delle capacità differenti, competenze differenti e quindi è logico scambiarle, con una cerchia che temporaneamente “insegna” ed un'altra che altrettanto temporaneamente “impara”.
Se siamo più esperti in un settore specifico è ovvio che la nostra lungimiranza ci consentirà di evitare errori grossolani, ridurre la fatica impiegata a fare ciò che facciamo… e così via.
Se poi utilizziamo questa consapevolezza per aiutare qualcun altro che non ha ancora sviluppato pari esperienza e questi riconoscesse che facciamo una cosa utile per lui, potrebbe decidere di chiamarci Sensei… se sentisse che la cosa gli suona appropriata (…un fatto splendido nel contesto marziale, se ci si pensa… data l’umiltà che dovrebbero desumerne gli Insegnanti).

Sensei, cioè, non è un mostro sacro, un guerriero imbattibile, quasi un super-uomo, da onorare a tutti i costi fino che il tatami non ci separi! Quando invece traduciamo il termine con “Maestro” all’interno dei nostri Dojo, spesso attribuiamo un alone di rispettabilità notevole, quasi dogmatica, che ci allontana dal significato originale. Maestro è infatti chi “indica la via”, perché “la padroneggia”… chi non si può sbagliare ed è un riferimento fermo e sicuro.
Alle nostre latitudini, assume un po’ il significato onorifico di Professore, Dottore, Ingegnere o Avvocato… qualcuno “che ha studiato”… “che c’è”, insomma.

Ecco un simpatico esempio della caricatura che molti hanno di un Maestro...



Lo ripetiamo però, non fa questo interamente parte della parola Sensei, che ancora oggi nella sua terra natia è utilizzata in modo molto più fluido, temporaneo, non rigorosamente e venerabilmente rigido.
A riprova di ciò, in Giappone è attualmente in onda uno spot pubblicitario che vede un goffo insegnante che cerca continuamente di importunare una sua giovane allieva con equivoci palpeggiamenti. Lei lo rispetta, chiamandolo Sensei, ma di volta in volta si sposta, schiaffeggiandogli la mano troppo audace! (non siamo purtroppo riusciti a rintracciarlo su YouTube!)

Ovviamente, se si prova grande rispetto verso una persona, la si può chiamare continuativamente Sensei, ma non c’è nulla di magico in ciò, e semplicemente un fatto di normale educazione, nello stesso modo in cui si chiamerebbe Giuseppe Rossi “Sig. Rossi” e non “Hey, Pino!”, se si nutre stima in lui.

Si diceva poc’anzi che nessuno può auto-proclamarsi Sensei, ma è necessario attendere che siano altri a farlo nei propri confronti. Anche i Maestri giapponesi più rinomati si presentano solitamente con il loro cognome, ma senza usare questo appellativo, che risuonerebbe presuntuoso altrimenti detto dalle loro stesse bocche.

Al contrario dell’italiano o dell’inglese (“Dott. Rossi”, “Mr. Smith”), i termini onorifici vengono posti in giapponese dopo il nome della persona, perciò è corretto dire “Ueshiba Sensei” e non “Sensei Ueshiba”.

Tradizionalmente veniva permesso di insegnare in un Dojo a chi possedesse il grado minimo di 3° Dan, quindi questa era la prima opportunità da tatami di essere chiamato con il celeberrimo appellativo, anche se non era automatico, ovviamente, essere considerato un insegnante raggiunto tale grado. Questa è la ragione per la quale il “neo candidato Sensei” si faceva rilasciare una dichiarazione scritta dal suo Maestro, in cui veniva certificata la sua preparazione e la competenza raggiunta.

Esistono anche altri termini onorifici legati alla pratica delle Arti Marziali tradizionali:

- Fuku Shidoin [副指導員] o Renshi [練習機]: “assistente Istruttore”, il grado più basso istituito all’Aikikai Hombu Dojo, corrispondente approssimativamente al 2° e 3° Dan;

- Shidoin [指導員] o Kyoshi [巨匠]: “Istruttore”, dal 4° Dan in su;

- Shihan [師範]: “imitabile”, dal 6° Dan in su, in riferimento ad un individuo da imitare per le profonde qualità che incarna a seguito del suo lungo cammino in seno all’Arte che tramanda;

- Soke [宗家], Kaicho [会長] o Kaiso [開祖]: “capo scuola”, “leader” o “fondatore”, generalmente utilizzato per designare chi diviene rappresentativo di un movimento o di una scuola. Sovente si sente parlare di Morrei Ueshiba come diAiki Kaiso”, cioè appunto “Fondatore dell’Aiki” (Kaicho e Kaiso, sono due termini quasi assonanti ma distinti, che hanno onorificenza diversa, il primo suona più come “presidente”, mentre il secondo più come “inventore”).

Ora… una delle difficoltà di chi si accosta alle discipline simili alla nostra è generalmente quella di trovare “un buon Maestro”, per potersi affidare ad un individuo preparato, responsabile e consapevole di come gestisce e patrocina la pratica dei suoi allievi.

… ma si può giungere presto ad un paradosso: Sensei è, per definizione, chi riconosciamo capace di insegnarci ciò di cui abbiamo bisogno… ma un neofita non è tenuto a sapere di cosa ha bisogno (almeno in modo coscio), altrimenti non sarebbe neofita!

Ovviamente sarà più facile voler curiosare in un Dojo in cui insegna “Giuseppe Rossi, 4° Dan”, che “Mario Bianchi, 2° Dan” (i nomi sono di fantasia!)… ma tali gradi sono di solito conseguiti per abilità di tipo tecnico, e non garantiscono reali capacità di empatia e promozione del prossimo step utile allo studente che frequenta il corso.

Dobbiamo cercarci il Maestro, insomma, sulla nostra stessa pelle e non solo basandoci sulla nomea che ne possono fare gli altri. Ci sono però una serie di buone norme da tenere a mente in questa ricerca, che potrebbero tornare utili in caso di inesperienza e/o indecisione:

- un buon Maestro non ha bisogno di nominarsi tale, di mettere in bella mostra i suoi gradi o i suoi meriti, proprio come il termine giapponese Sensei insegna, sono gli altri che in modo naturale riconoscono stima in lui: tenersi lontano da chi si auto-proclama troppo rumorosamente, quindi;

- un buon Maestro non ha bisogno di attrarre a sé allievi e creare in essi dipendenza dalle sue azioni o parole; le persone giungono spontaneamente e se si dovessero legare troppo, considerandolo in qualche modo un “guru”, sarà lui stesso a ricordare loro che rischiano di intraprendere una strada pericolosa per la propria crescita individuale;

- un buon Maestro non offre i suoi insegnamenti per un tornaconto personale di bassa fattura; non affermiamo che chi insegna lo debba fare per nulla, ma O’ Sensei stesso è un chiaro esempio storico di come un Maestro non dovrebbe accettare di scendere a compromessi troppo discutibili per portare avanti la sua attività (leggi: soldi, sesso, potere… Sensei s.p.a.);

- un buon Maestro lavora per “diventare inutile”, ossia si affianca agli allievi per insegnare loro i primi passi, ma con l’intento di aiutali a camminare presto con le loro stesse gambe, a valutare la realtà con la loro capacità critica; chi riserva “insegnamenti segreti” ai propri discepoli prediletti spesso non sta facendo altro che tentare di legarli a sé, incuriosendoli su eventuali, ulteriori e presunte conoscenze segrete. Siano da esempio le parole stesse del Fondatore: “progresso viene sempre per chi pratica dentro e fuori di sé, non tecniche segrete, poiché tutto è mostrato” [doka n° 73]… ed ancora “l’Universo è un libro aperto, pieno di cose miracolose, ed è lì che la vera conoscenza deve essere cercata […] assumetevi le vostre responsabilità, allenatevi duramente […], fiorite e date frutti”;

- un buon Maestro emana qualcosa di piacevole dal suo muoversi, atteggiarsi e conversare; è una caratteristica irrazionale ed emotiva che non può essere descritta più di tanto, ma vale la pena di seguire il proprio istinto se si avverte qualcosa del genere;

- un buon Maestro cercherà di rendere gli allievi più consapevoli di loro stessi e della loro unicità, non suoi cloni o, peggio ancora, brutte copie di se stesso. Se si capita in un Dojo in cui è possibile scorgere diverse espressioni di personalità e “stile”, gestite in un clima sereno ed ordinato, probabilmente si sarà approdati nel luogo giusto. Se tutti si muovono nello stesso modo, ragionano e si atteggiano nello stesso modo, sarà perché l’Insegnante lo permette… talvolta lo richiede addirittura. Quindi se cerchiamo tecnica e quella di un luogo simile dovesse piacerci… potremo fermarci, ma crescere implica un altro percorso;

- un buon Maestro evolve, cioè cambia nel tempo… e così facendo stimola gli altri ad imitarlo in questo; chi pontifica troppo sull’urgenza di conservare esclusivamente inalterata la tradizione si prepara a fare il guardiano di un museo, più che a praticare ed insegnare Aikido al prossimo; la nostra Arte è quanto di più mutevole ci sia, in quanto ricerca un continuo senso ed equilibrio nel luogo attuale, nel momento attuale e con le persone che incontra… non forzando gli allievi ad un viaggio indietro nel tempo nel Giappone feudale; non si afferma che sia errato essere profondamente consapevoli della tradizione, ma piuttosto che la tematica è rischiosa se ricercata in modo esasperante;

- un buon Maestro non è necessariamente un ottimo tecnico, un eccellente comunicatore, un infallibile pedagogo, un grande filosofo, un vero guerriero, un autentico mistico… ma è la figura che più si approssima all’integrazione di queste rare doti. Morihei Ueshiba, il “Grande Maestro”, ne è al solito la riprova. Era al quanto disordinato nei suoi insegnamenti, e spesso i suoi allievi lo vedevano cambiare così improvvisamente i metodi di insegnamento sul tatami da rimanerne disorientati. Spesso rispondeva alle domande fatte con frasi che parevano completamente fuori contesto… Appariva invincibile, è vero, ma piuttosto lontano da un ideale di perfezione: lui stesso non ha mai rimandato di volerla incarnare. Tuttavia, molti allievi che lo ha conosciuto, almeno con il senno di poi, testimoniano di aver ricevuto l’insegnamento più appropriato al proprio contesto, nel momento migliore in cui potesse accadere in riferimento alle proprie caratteristiche personali di allora;

Avendo ridimensionato così il “potere magico” del chiamare o dell’essere chiamati Sensei, abbiamo anche visto come possa essere profondo il percorso di chi vuole tracciare l’identikit del perfetto Maestro.
Chiamiamo dunque chi ci insegna come vogliamo, ma ricordiamoci di essere noi a poterlo fare a nostro modo… magari tuffandoci nell’avventura di cambiare anche “Sensei”, di tanto in tanto… in maniera tale da non fossilizzarci su aspetti più legati alla nostra abitudine e comodità, rispetto a quello che ci farebbe veramente crescere ed approdare al nostro prossimo… “Dan” (leggi: “livello”, “gradino”, “consapevolezza”).

Questo Post è stato scritto traducendo parzialmente i contenuti degli articoli di Christopher Li e J. Akiyama, comparsi nei giorni scorsi su Aikido Journal e su AikiWeb, ed integrando il testo con una serie di riflessioni scaturite dall’esperienza diretta degli Autori, delle quali gli stessi si assumono interamente la paternità e la responsabilità.

Concludiamo con due aforismi orientali sul tema; il primo recita:

“quando l’allievo è pronto, il Maestro arriva”
… che se veritiero ci permette di rilassare le proprie aspettative sulla necessità di approdare con i soli nostri sforzi nel luogo giusto e dalla persona giusta; il secondo invece dice:

“nel mondo non ci sono buoni o cattivi, amico o nemici, ci sono solo Maestri”
… probabilmente stimolando la capacità di ciascuno di trarre il massimo profitto ed insegnamento per sé da qualsiasi situazione incontri nel suo cammino.

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